Grande Guerra, giovani azzurri caduti al fronte
Muore giovane chi è caro agli dei, per dirla con Menandro. Il destino aveva deciso che Virgilio Fossati non dovesse diventare grande. Piuttosto, volle che diventasse un grande. L’unica arma che lo sport conosceva era un pallone di cuoio cucito a forza. Pesante come il piombo. E, colpito di testa, poteva ferire. Ma non si moriva, se non di vergogna. Virgilio fu spedito in Friuli. A due passi dal Carso e dal confine con quella che oggi è Slovenia. A sparare contro l’Austria-Ungheria. Vi giunse da sottotenente perché a pallone non giocavano i contadini, ma i giovani del ceto medio delle grandi città. Divenne capitano, come era accaduto nell’Inter. E da capitano cadde a Monfalcone. Lo colpì una pallottola sul fronte nord orientale dopo 94 partite con la sua squadra e 12 da azzurro. Il colore dei Savoia. Il Regno d’Italia, difeso col pallone e il fucile. Morì da eroe, Virgilio. Ma non fu l’unico caro agli dei.
Altra vita sacrificata alla Grande Guerra, quella di Erminio Brevedan fu tra le più fulminee. Fece in tempo a giocare cinque partite nel Milan, dopo essere arrivato sotto la Madonnina con una valigia di speranze. Quando esordì si capì subito che aveva talento ed era un attaccante con i fiocchi. Fu tra i primi a partire e tra i primi a morire. Le sue presenze in campo rimasero ferme a cinque, la sua età a 22. Fu arruolato tra i fanti e spedito sul Monte Piana nelle tre Cime di Lavaredo. La sua guerra non fu grande né lunga. Dopo poche settimane il fuoco austriaco lo lasciò sul terreno privo di vita. Fu il primo tributo di sangue rossonero alla patria.
Fossati e Brevedan subirono una beffa. L’oblio. Altri meritarono l’onore del ricordo ma, come sublime oltraggio, di loro restò solo il nome. Scollegato dalle gesta. Mario Giuriati è più noto come il campo sportivo dove tutti i ragazzini di Milano hanno giocato almeno una volta nella loro adolescenza scolastica. A lui è intestata anche una strada. Partì per l’Isonzo come sottotenente di fanteria e cadde da eroe sul Sabotino. Ferito da una raffica austriaca, tornò in trincea e guidò i suoi all’assalto. Colpito da un secondo fuoco non ebbe modo di riprendersi. Aveva 21 anni.
A Giuseppe Caimi invece è toccata una piscina, ma con il nuoto ebbe poco da spartire. Molto invece lo legò a Fossati, compagno di squadra e centrocampo. I registi dell’Inter anni Dieci. Dopo un triennio nella Milanese, terza squadra della città, qual giovane alto e sorridente, dinoccolato e donnaiolo approdò in nerazzurro, ma perse la nazionale. Fu disdoro di femmina a tradirlo. Vittorio Pozzo lo convocò per la trasferta in Svezia. Giuseppe rise e spontaneo sbottò. «Se vado, chissà quante svedesone mi toccherà portare in camera». Il suo biglietto non fu mai staccato e Caimi restò a casa. La guerra non lo reclutò. Fu lui a reclutare lei. E partì volontario. Combattè in Valsugana e sul Grappa dove fu ferito a morte da tenente di fanteria. Così morì «Polidoro», ragazzo di 27 anni che sapeva imitare, far ridere e fare gol portandosi anche in campo quel nomignolo ereditato da una macchietta del cinema. L’associazione volontari di guerra di Milano ha commemorato la sua medaglia d’oro al valor militare a un secolo dalla morte.