Roma, Made in Ciociaria già nell’Ottocento
di Michele Santulli
Ci sono concetti ardui non tanto a comprendere quanto ad assimilare e uno di questi è la relazione secolare tra Roma e la sua appendice meridionale, che oggi individuiamo come la Ciociaria, una volta Lazio Aggetto e, successivamente, Campagna di Roma, ma alle origini Terra dei Volsci.
La storia come sempre si limita a informare e a fornire fatti e vicende, la lettura e le interpretazioni sono degli altri. E quindi ben si conosce che, come osservò quell’acuto ciociaro Anton Giulio Bragaglia, mentre ancora ai piedi del Palatino il Tevere era tutto un pantano confuso e mescolato fino alle paludi pontine, dove alto si levava il gracidio delle rane, la regione al suo sud abitata dalle prime popolazioni italiche, dai Volsci, Ernici, Sanniti, Osci, Equi ed altre, si estendeva invece tra boschi e pianure fertili ed ubertose solcate da fiumi scroscianti e pescosi, laddove sui monti circostanti, Ernici e Mainarde e sui versanti dei Lepini e degli Aurunci e degli Ausoni si annidavano racchiuse nelle mura di pietre gigantesche appena tagliate e ancora bianche e brillanti al sole, Atina, Anagni, Veroli, Cori, Priverno, Fondi, Alatri, Norma, Ferentino… quali gioielli incastonati nel paesaggio.
Inutile ricordare gli uomini, e le loro opere, nati in questa terra: sono essi che hanno dato a Roma contributi significativi di cultura e di civiltà, sono essi che veramente hanno prodotto e creato senza ricorrere a violenze o a spargimento di sangue: è vero alcuni di loro hanno combattuto e brillato per coraggio, ma sempre al servizio di Roma: da loro non è emanata angheria prepotenza aggressività. Chi vuol saperne di più, raccomando “ORGOGLIO CIOCIARO/Ciociaria pride”.
I secoli successivi hanno confermato e rafforzato un rapporto divenuto vera e propria simbiosi. Tributaria di Roma da sempre per vettovaglie e uomini: in epoca romana ha dato sistematicamente i soldati per le legioni, nei secoli successivi è stata quasi la sacrestia della gerarchia ecclesiastica, dalla quantità infinita di semplici preti alla quantità di alti prelati, ai cardinali e ad almeno sette papi. Ma il secolo che marca e contrassegna una realtà ancora più intima e stretta è il secolo diciannovesimo che registra la vera e propria ciociarizzazione di Roma, un fenomeno sociale ed antropologico che ancora oggi si continua a disconoscere anziché valorizzare ed approfondire.
Il flusso costante di immigrati iniziato già alla fine del 1700 partendo dalla Valcomino e poi estesosi gradualmente a tutta la regione a Sud del Tevere e dell’Aniene, ebbe come conseguenza che ad un certo punto già verso il 1850 la presenza di quella umanità in quei variopinti abiti e con quelle calzature così singolari ai piedi era così massiccia ed imponente che divenne logico e normale far diventare i ciociari i veri abitanti di Roma: si rammenti che Roma in quest’epoca contava poco più di centomila abitanti e se si calcola quanti potessero essere i preti, i monaci, i sagrestani, le monache, gli aristocratici e i nobili e la loro servitù, e che molta parte dei romani erano osti o albergatori o caffettieri o pizzicagnoli o artigiani o bottegai e i sei-settemila ebrei confinati nel ghetto, allora ben si comprende come i quindici-ventimila ciociari presenti, effettivamente venissero considerati i veri abitanti di Roma.
Una concomitanza particolare fu che all’epoca di Pio IX e nella sua segreteria si contavano almeno quindici cardinali ciociari e il ministro delle finanze era anche un ciociaro di Ceprano: quindi fu perfino normale, allorché l’8 dicembre del 1854 il Papa proclamò il dogma della Immacolata Concezione, prendere atto da parte delle gerarchie ecclesiastiche che la popolazione romana erano i ciociari: e infatti nei Musei Vaticani si ammira la Sala con gli affreschi che ricordano la celebrazione della Immacolata Concezione e sulla parete in cui si vede il Papa che pronuncia il dogma, si noterà che la popolazione romana che assiste all’evento immortale è rappresentata da una ciociarella col suo bimbo che guardano verso il Papa!
Ma tale realtà sociale era fatto acquisito anche in tutta l’Italia: e infatti nel 1867 o giù di lì, in Piemonte appariva sulla stampa un documento che mostrava la figura dell’Italia incoronata che si rivolgeva al Re Vittorio Emanuele II e gli diceva: “Sbrigati, Maestà, a liberare quella poveretta, così io sarà unita e tu ne avrai la gloria”: e quella ‘poveretta’ era una ciociarella in inappuntabile costume e con cioce ai piedi, accasciata su una sedia, con i simboli del potere per terra, assistita da una badante: era Roma. E qualche anno più tardi Gerolamo Induno dava il proprio contributo di patriota alle giornate rivoluzionarie che stavano affliggendo ed angustiando la tranquillità della romana esistenza, illustrando in un suo quadro alcune ragazze in costume ciociaro che, segretamente, confezionavano le bandiere tricolori.
Una conseguente realtà della cosiddetta ciociarizzazione di Roma la si rileva anche nella produzione artistica dell’epoca sia nelle opere degli artisti europei sia anche nella folta schiera di artisti sbocciati a Roma prima e dopo il 1870: infatti l’elemento umano presente nelle loro opere erano solo la ciociara o il ciociaro. Si aggiunga che tutta la iconografia sia artistica sia giornalistica e di cronaca in occasione del fatidico 20 settembre avevano come soggetti solo il ciociaro quale abitante di Roma e il bersagliere quale liberatore.