«Freni tolti per soldi, messo un forchettone», funivia 14 morti confessione agghiacciante
C’è un momento preciso nel quale, già messa a dura prova dai sensi di colpa per la morte dei 14 passeggeri della funivia del Mottarone di cui non possono non avvertire il peso, la vita di Luigi Nerini, Enrico Perocchio e Gabriele Tadini sprofonda nel baratro. È quando alle prime ore di martedì mattina i pm che indagano su uno dei maggiori disastri della storia italiana dei trasporti a fune mettono la propria firma sul decreto di fermo che porta i tre in carcere trasformando quello che fino a poco prima veniva letto come un tremendo incidente dovuto ad un fatale, tragico «errore umano», in una «scelta deliberata» e criminale, fatta solo per soldi. Quelli che la Ferrovia del Mottarone avrebbe perso se avesse fermato l’impianto per una lunga riparazione.
Nerini, 55 anni, titolare della società che gestisce la funivia, Perocchio, 41 anni, direttore di esercizio, Tadini, 63 anni capo servizio, sono accusati di «Rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro», reato che prevede fino a 10 anni di reclusione in caso di disastro e vittime per chi non mette, rimuove o danneggia sistemi di sicurezza. I carabinieri della compagnia di Verbania già a 48 ore dall’incidente avevano fornito al Procuratore Olimpia Bossi e al sostituto Laura Carrera tutti gli elementi che spiegavano che i freni di emergenza non erano intervenuti perché erano stati disattivati con i «forchettoni», con la conseguenza che quando domenica mattina la fune di trazione si è spezzata all’arrivo nella stazione di monte, la cabina, libera dall’unico vincolo, è diventata un proiettile, ha ripercorso a ritroso gli ultimi 300 metri fatti all’andata a folle velocità, si è sganciata dalla fune portante schiantandosi a terra.
Quando Tadini viene interrogato martedì pomeriggionella stazione dell’Arma di Stresa la situazione si ribalta nel momento in cui ammette «di aver deliberatamente e ripetutamente inserito i dispositivi blocca freni (i «forchettoni», ndr) durante il normale servizio di trasporto dei passeggeri», si legge nel decreto di fermo. Sono le 16.30, arrivano pm e avvocato difensore d’ufficio, l’uomo viene indagato e l’esame riprende con le domande stringenti della Procuratrice e del capitano Luca Geminale. Perché ha messo i «forchettoni»? Perché una serie di anomalie facevano scattare i freni d’emergenza e le riparazioni, l’ultima il 3 maggio, non erano servite a niente. «Per evitare continui disservizi e blocchi della funivia, c’era bisogno di un intervento radicale con un lungo fermo che avrebbe avuto gravi conseguenze economiche. Convinti che la fune di traino non si sarebbe mai rotta, si è poi voluto correre il rischio che ha portato alla morte di 14 persone. Questo è lo sviluppo grave e inquietante delle indagini», è la raggelante risposta di Olimpia Bossi alla fine degli interrogatori mentre alle 4 di martedì mattina sul lago Maggiore albeggia.
Il blocco per la pandemia aveva falcidiato gli incassi e, ipotizzano gli investigatori, bisognava evitare ulteriori perdite. Tadini ha dichiarato che Nerini e Perocchio, che erano stati «ripetutamente informati» della situazione, «avallavano tale scelta e non si attivavano per consentire i necessari interventi di manutenzione», riporta il decreto, già dalla riapertura del 26 aprile. Per quasi un mese, quindi, la cabina è stata una roulette russa per chi ci ha viaggiato. Resta il perché la fune traente si sia spezzata, quesito al quale risponderanno le consulenze tecniche che saranno affidate dai pm già da oggi.
Per i magistrati, quindi, siamo di fronte a fatti la cui «straordinaria gravità» è dimostrata dalla «deliberata volontà di eludere gli indispensabili sistemi di sicurezza dell’impianto di trasporto per ragioni di carattere economico e in assoluto spregio delle più basilari regole di sicurezza, finalizzate alla tutela dell’incolumità e della vita dei soggetti trasportati». Quello che è accaduto, scrivono ancora, a causa della «sconsiderata condotta» dei tre indagati comporta, in caso di una condanna in un processo, «l’irrogazione di una elevatissima sanzione detentiva». Questo potrebbe spingere gli indagati a fuggire. Secondo i pm, infatti, il pericolo di fuga è «concreto e prevedibilmente prossimo alla volontà degli indagati» anche «in considerazione dell’eccezionale clamore a livello internazionale» della vicenda e «per la sua intrinsica drammaticità, che diverrà sicuramente più accentuata» quando emergeranno per intero tutte «le cause del disastro». corriere.it