Una delle abbazie più note del medioevo, ecco San Vincenzo al Volturno

di Giuseppe D’Onorio*

Siamo in Molise, nel comune di Rocchetta al Volturno in provincia di Isernia. È qui che nasce il fiume Volturno, che dopo aver attraversato parte della regione campana sfocia nel Tirreno presso Castel Volturno. È in questa ameno e fertile luogo,  coronato dalle alte vette delle Mainarde, che si trova l’antica e gloriosa abbazia di San Vincenzo. Per trovare le origini della sua storia occorre andare ai primi anni dell’VIII secolo, quando tre nobili beneventani, Paldo, Taso e Tato, come narra il Chronicon Vulturnense.  vennero a fondare in questo luogo, dove già esisteva un oratorio dedicato a S. Vincenzo, un nuovo monastero. Col crescere della comunità monastica man mano furono eretti anche gli edifici necessari. 

La prima chiesa, costruita in forma di basilica dall’Abate Giosuè, tra la fine del VII e l’inizio dell’ VIII secolo, presentava ben trentadue colonne prelevate da un antico tempio vicino Capua. Questa basilica, come anche tutto il monastero,  fu distrutta nell’anno 881 dai Saraceni, e tutta la comunità – i documenti parlano di qualche centinaio di monaci – fu trucidata. I superstiti si ritirarono dietro le mura sicure della città di Capua. Resta di questo monastero la cripta dell’abate Epifano con un interessante ciclo pittorico longobardo-beneventano del IX secolo2. Solo verso la fine del secolo decimo ed primi anni del secolo undicesimo, sotto gli abati Giovanni IV (998-1007) e Ilario (1011-1045), cominciò la ricostruzione del monastero. Come fu di Montecassino, dove l’abate Desiderio (1058-1087) aveva eretto la famosa Basilica, così anche a S. Vincenzo al Volturno l’abate Gerardo (1076-1099) faceva erigere una basilica notissima ai suoi tempi per la bellezza ed il ricco arredamento. Ricevette la sua consacrazione spirituale ad opera di un Pasquale II, nell’anno 1175. Solo per due secoli i monaci ed i fedeli poterono godere di questa importante oasi di spiritualità, ma il 9 settembre 1349, un terribile terremoto portò la distruzione e lo stesso avvenne per Montecassino. 

La storia seguente di questi due grandi monasteri dell’Occidente prendeva da qui una strada differente. Mentre Montecassino risorgeva di nuovo dalle sue rovine – succisa virescit – a S. Vincenzo al Volturno mancava questo slancio di vita e di rinnovato vigore e da quest’epoca cominciava il suo declino, che in pochi anni l’avrebbe condotta alla completa decadenza, accelerata dall’irruzione della soldatesca di Luigi l’Angioino nell’anno 1385, che distrusse quanto era ancora rimasto. Sopraggiunsero le difficoltà economiche e sociali di quell’epoca, che si facevano sentire dappertutto nel mondo monastico, e molto più dove la vita regolare era già in declino o più o meno già estinta. Nel corso del secolo XIV e XV i beni del monastero furono presi da commende dei Vescovi vicini, principalmente da quelli di Aversa. 

La vita monastica frattanto si era del tutto spenta. Verso la fine del secolo sedicesimo il vescovo di Aversa, Innico Caracciolo, quale abate commendatario dell’abbazia di S. Vincenzo al Volturno, si interessò per la parziale ricostruzione della chiesa. Però, anche questo piccolo resto della grandezza di un tempo non ebbe una lunga durata. I dintorni erano scarsamente abitati. Gli abitanti si erano ritirati sulle alture vicine, che davano più sicurezza che la pianura, dove restavano le antiche vestigia del monastero e la chiesetta rifabbricata. I tempi poco propizi, guerre e fenomeni naturali, talora catastrofici, si aggiunsero ad affrettare il deperimento. Durante l’ultima guerra, ci furono combattimenti, che anch’essi hanno lasciato i loro segni funesti. 

Occorre arrivare al 1954 quando veniva solennemente benedetta la Chiesa eretta sopra i resti di quella antica, che era molto più ampia e ricca. Architettonicamente molto semplice nelle sue forme esteriori, il nuovo edificio comprendeva l’originale presbiterio in stile gotico, qualche parte di colonne antiche e alcuni resti del pavimento dell’XI- XII secolo, quanto bastava per rievocare la memoria di una comunità monastica, che era un tempo una delle più importanti dell’Occidente. Nel 1968, invece, e precisamente l’11 ottobre, terminati i lavori di restauro della possente torre campanaria, a sinistra della chiesa, l’abate di Montecassino Ildefonso Rea benediceva le sei campane che erano state lavorate dai fratelli Pasquale e Ettore Marinelli, della storica fonderia di Agnone. 

L’attenzione di Montecassino per San Vincenzo non venne meno neppure negli anni successivi. Intorno agli anni ’70 furono collocate nella cella campanaria altre due campane, o meglio due preziosi cimeli medievali di staordinaria importanza. Ancora oggi sono lì a narrare, con il loro suono, la storia ultra millenaria del posto. 

La maggiore delle due è datata 1331. Nell’iscrizione in caratteri onciali, posta in due fasce che girano lungo la testata, vi è riportato il saluto alla Vergine da parte dell’arcangelo Gabriele, l’anno di lavorazione e il nome del maestro fonditore. AVE M(ARI)A • GR(TIA)A • PLENA • D(OMI)N(U)S • TECU(M) BENEDTICTA TU I(N) MULIERIBUS • ET BENEDICTUS FRU/CTUS VENTRIS TUI + AN(N) O D(OMI)NI M CCCXXXI • MAGISTER ROMEUS TRIVISANUS ME FECIT. 
Anche nella parte bassa dell’incavo è posta un’altra iscrizione dove compare il noto epitaffio di Sant’Agata e il nome del committente: il priore di Santa Maria delle Grotte, frate Francesco di Valle Regia: MENTEM S(AN)C(T)A(M) SPONTANEA(M) HONORE(M) DEO ET PATRIE LIBERATIONE(M) + FRAT(ER) FRANCISCUS DE VALDE REGIA PRIOR S(AN)C(T)E M(ARIE) DE GRIPTIS + FIERI FECIT HOC OPUS. 

L’antica Chiesa rupestre di S. Maria delle Grotte, nel comune di Rocchetta a Volturno, che prende questo nome in quanto sorge su un luogo caratterizzato da caverne, aveva annesso un piccolo monastero dipendente da S. Vincenzo, che nel XIII e XIV secolo ebbe il suo maggiore sviluppo edilizio. A questo ultimo secolo risale, infatti, l’antico vaso bronzeo che attesta l’esistenza della chiesa e di una comunità retta dal priore Francesco di Valle Regia. 

La seconda campana medievale è anch’essa di notevole interesse storico sia per l’iscrizione che per il sigillo provante l’antica appartenza del manufatto. La scritta si apre con l’epitaffio agatino e termina con l’indicazione del cenobio di S. Pietro: MENTEM S(AN)C(T)A(M) SPONTANEAM HONOREM DEO ET PATRIE / LIBERATIONEM DEI XPI AM(EN) CANPANA CEN(OB)IS SANTI PETRI. Segue un tondo sigillo con al centro una pianta di nocciolo e intorno: S(IGILLUM) S(ANCTI) PETRI AVELLI. 

Certamente questa campana venne fusa per San Pietro Avellana dove vi era un monastero di pertinenza dell’abbazia di Montecassino. Scrive lo storico Franco Valente: «Dell’antico monastero di S. Pietro Avellana rimane memoria solo nel titolo di cui l’Abate di Montecassino ancora oggi si fregia. Eppure è stato uno dei più importanti feudi monastici dell’Italia benedettina all’inizio del secondo millennio. Vari cultori di cose antiche, per il fatto che sul vicino monte Miglio vi sia una imponente cinta sannitica megalitica, avevano voluto ritrovare nel toponimo di Avellana le radici dell’antica città italica di Volana. L’atto di donazione con il quale Odorisio Borrello nel 1026 permetteva la nascita del cenobio, invece, chiarisce definitivamente che tutto è più semplice, perché il luogo del nuovo insediamento, dedicato a S. Pietro Apostolo, era nei pressi di una fontana con una maestosa pianta di avellane (ovvero di noccioline): Construxit coenobium, quod ab enormi arbore avellana, quae iuxta olim constiterat, Sancti Petri de Avellana nuncupationem accepit…». 

Ora a conferma di quanto scrive Valente c’è anche la campana e il sigillo dell’antico monastero con la riproduzione di una pianta di avellana al suo interno. Nell’iscrizione del bronzo non è riportato il nome dell’artefice che l’ha realizzata, ma non escludiamo che si possa trattare di una maestranza locale, forse proveniente dalla vicino città di Agnone, dove i Marinelli avevano già da tempo iniziato la loro qualificata opera di fondere campane.

Oggi nella storia dell’abbazia S. Vincenzo entra a pieno titolo anche le vicende delle due campane medievali, che aggiungono altre pagine di maggior approfondimento del luogo e della regione Molise, dal notevole patrimonio monumentale e ambientale. Una storia che oggi si rinnova con la presenza di una comunità composta da sette monache benedettine provenienti dal monastero di S. Angelo in Pontano (Macerata), cercate e generosamente accolte dall’abate ordinario di Montecassino don Donato Ogliari. La loro presenza ha consentito di dare continuità all’Ora et Labora della regola di San Benedetto, di far rivivere la storia monastica del luogo e di far sentire nell’altopiano del Volturno i rintocchi storici delle due campane medievali. Potenza e Carità di Dio n. 2/2021 per abbonarsi scrivere a benedettineveroli@gmail.com

*Già sindaco della Città di Veroli (FR)