Torturati e murati dentro una grotta, ecco la ferocia dei comunisti contro gli italiani
di Rodolfo Decleva
Entrarono a Fiume, senza sparare un colpo e senza un ferito o un morto, 7 ore dopo che i tedeschi avevano abbandonato la città nella notte del 2-3 Maggio 1945. Da subito la determinazione jugoslava di impadronirsi del territorio fiumano con le buone o con le brutte maniere affiorò lampante: dopo la soppressione dei 3 Martiri autonomisti, dei questurini, carabinieri e finanzieri, toccò il turno a due senatori fiumani del Regno che non avevano voluto abbandonare la città avendo la coscienza a posto.
Il senatore Icilio Bacci venne arrestato quando andò a chiedere un lasciapassare per Trieste e fu fucilato a Karlovaz dopo un processo sommario. Il senatore Riccardo Gigante fu seviziato a Castua e murato dentro ad una grotta insieme ad una decina di altre vittime.
Di notte squadre speciali della Polizia Segreta sequestravano cittadini che ai familiari il giorno seguente non riusciva più di rintracciare né in Piazza Scarpa, sede dell’OZNA, né nelle carceri di Via Roma. Si andava a cercarli anche a Kostrena e Cirquenizze, ma il risultato era sempre lo stesso: indirizzati da un ufficio all’altro perché nessuno ne conosceva la sorte, e i commenti che si riceveva erano: “non è qui”, “non sappiamo niente” per concludere “se lo hanno prelevato, qualcosa pur avrà fatto”.
Nei quartieri della Cittavecchia furono istituiti Capi Fabbricato e a turno, una volta alla settimana, gruppi di famiglie dovevano recarsi nella Scuola “Manin” – a seconda dei Rioni – per imparare il nuovo corso mentre gli assenti venivano qualificati come “Reazionari” o “Nemici del Popolo” comprendendo tra questi anche coloro che non facevano il lavoro volontario di sgombero macerie nei giorni di sabato e domenica.
Per recarsi a Trieste venne istituita una nuova carta di identità e la gente per ottenerla si metteva in fila nel Comitato Popolare Cittadino CPC di Piazza Regina Elena sin dalle 4 ore del mattino, ma il documento veniva rifiutato ai tanti “Reazionari” schedati dall’OZNA in Piazza Scarpa. In Piazza Regina Elena i “liberatori” eressero un arco di trionfo in legno che veniva snobbato dai fiumani, i quali – evitando intenzionalmente di passarvi sotto – esprimevano con tale gesto la loro avversione al nuovo regime. Era in voga il detto “Maledetto quel fiuman, che passa sotto l’arco partigian”.
Quando arrivò il 6 Dicembre 1945 gli studenti delle Scuole Medie fiumane si accordarono di festeggiare San Nicolò e a non presentarsi a scuola. Era in tutti il ricordo amaro di quando frequentando le Elementari dovevamo lasciare i doni che il Santo ci aveva portato in quella notte magica. Il Regime fascista era contrario che si celebrasse quella festa perché in antitesi con la Befana Fascista del 6 Gennaio, ma ora che la “libertà” era arrivata, era un’altra cosa. Fu uno sciopero? Una serrata? Certamente non fu un gesto politico. L’adesione fu totale e le scuole medie rimasero vuote, ma ciò provocò la reazione violenta del nuovo Regime, che mobilitò gli operai del Cantiere navale per la repressione di quel gesto reazionario, considerato un nefasto sciopero capitalista.
E venne poi il Santo Natale, che non avrebbe dovuto essere celebrato secondo il nuovo regime comunista ateo, ma ci furono lo stesso molti coraggiosi che – per paura di possibili delazioni – arredarono il presepe dentro gli armadi di casa. Ci si affidava alla Chiesa per conservare le nostre tradizioni di identità fiumana e italiana. La Cattedrale di San Vito per la funzione della Notte Santa del 1945 era gremita, strapiena. Non ci furono irruzioni o minacce, ma nella piazza i giannizzeri dell’ateismo buttavano bombe a mano sulla vicina casa in macerie e sparavano con i mitra per disturbare le Funzioni spaventando i Celebranti e i fedeli.
Mentre l’ateismo comunista diventava legge, la proprietà privata era soppressa e i negozianti erano diventati commessi anziché padroni, e alla fine della settimana dovevano presentare i conti e gli incassi ai nuovi amministratori cittadini. Le fabbriche erano diventate cooperative, gli operai politicizzati, la meritocrazia abolita e le paghe livellate, cioè quelle degli ingegneri erano parificate a quelle degli operai e quelle dei Maestri a quelle dei bidelli.
I Tribunali Militari e i Giudici Popolari – non essendo riusciti a mettere le mani su coloro che consideravano criminali di guerra come ad esempio gli alti gradi dei comandi italiani, il prefetto e il questore di Fiume, il comandante tedesco SS – giudicavano e condannavano i reazionari, semplici cittadini che non volevano adeguarsi ai nuovi doveri dittatoriali del popolo lavoratore, ad ammende o reclusioni fino ai lavori forzati e alla confisca dei beni.
Sin da subito il nuovo Padrone di Fiume Colonnello Antun Kargacin emanò l’Ordinanza per l’obbligo della Leva Militare per migliaia di giovani fiumani nati dal 1900 al 1927, che furono “deportati” in Bosnia indossando la divisa militare jugoslava. Lo scopo? Toglierli dalla città nei giorni in cui la Delegazione dei 4 Grandi sarebbe arrivata per accertare l’italianità o la slavità di Fiume.
Nelle fabbriche era molto in uso anche l’epurazione giustificata con il logoro status di reazionario o nemico del popolo. E anche gli antifascisti pagavano la loro opposizione ai nuovi arrivati come Giovanni Stercich, ex Segretario di Riccardo Zanella, che fu esule durante il ventennio fascista e promotore di iniziative autonomiste dopo il 1943.
Nelle scuole furono diminuite le ore di italiano e latino, introdotto l’insegnamento obbligatorio della lingua croata e sostituito il tedesco. Poiché il Corpo Insegnanti si era rifiutato di sottoscrivere una petizione per l’annessione di Fiume alla Jugoslavia, i professori a ruolo furono ridotti da 110 a 31 e sostituiti con elementi fidati. L’autorità degli insegnanti fu poi azzerata venendo nominati i bidelli quali fiduciari di istituto e creati comitati studenteschi con funzioni di controllo e propaganda.