Ghetto ebraico, in Italia il più antico d’Europa tra salame d’oca e sarde in saor 

Nel più antico Ghetto d’Europa, si entra attraverso Calle del Forno, una strada stretta e sottile che incontra le Fondamenta di Cannaregio care al compositore Wilhelm Richard Wagner morto 150 anni fa proprio in questi luoghi, e lambisce il Giardino Segreto della Scuola Spagnola, uno spazio da poco recuperato in cui sono stati piantati virgulti ed essenze citate nei testi sacri. Si costeggia la fiancata in mattoni rossi di quel gioiello rinascimentale chiamato Palazzo Nani, adesso gemma della catena alberghiera Radisson Collection, che già nel ’500 coi suoi saloni affrescati, gli stucchi, gli archi della facciata irradiava un fascino senza tempo, oggi reso contemporaneo dall’interior design dello Studio Marco Piva. E dopo pochi metri, si accede subito a uno spazio, invece, ampio e circolare, la Piazza del Ghetto Nuovo, sul quale affacciano case dalle facciate alte e slanciate dai colori pastello, e in cui gravitano le cinque sinagoghe che scandiscono ancora oggi la vita della Comunità ebraica veneziana, facendo da scenario religioso a riti e cerimonie. La segregazione giudaica in questa piccola enclave ebbe il suo triste 29 marzo del 1516 quando il Senato della Serenissima Repubblica di Venezia decretò appunto la chiusura in un recinto separato di tutti gli ebrei presenti in città, circa settecento: il termine Ghetto, usato successivamente in tutta Europa, deriva dal fatto che in quel luogo si trovava la sede delle pubbliche fonderie, in cui appunto si gettavano, o meglio fondevano, quei pezzi di artiglieria chiamati bombarde, e dove vi erano una dozzina di fornaci nelle quali si effettuava la fusione del bronzo. Il Ghetto di Venezia, sia il vecchio che il nuovo, costituiscono un piccolo mondo a parte, un’isola tra il Canale di Cannaregio e il Rio della Misericordia che si snoda intorno alla piazza in cui gli ebrei avevano i loro banchi dei pegni e svolgevano originariamente la professione di straccivendoli. Adesso i membri della comunità sono scesi al numero di 412 (soprattutto di origine spagnola e greca), abitano anche altri sestieri, molti vengono qui da lontano a soggiornare al Rimon Place Kosher House Giardino dei Melograni che si trova proprio accanto al Monumento in memoria delle vittime della Shoah realizzato attraverso una serie di bassorilievi in bronzo dall’artista lituano Arbit Blatas: furono moltissimi, infatti, gli ebrei veneziani deportati nei campi di concentramento, nonostante il sacrificio di Giuseppe Jona, il medico a capo della Comunità ebraica, che bruciò gli elenchi contenenti i loro nomi richiesti dai nazisti, togliendosi subito dopo la vita. «Quello ebraico di Venezia è un museo diffuso, che prevede un piccolo spazio in cui sono conservati ed esposti pregiati manufatti orafi e tessili, i più antichi dei quali risalenti al XVI secolo, insieme a libri e manoscritti antichi, contratti nuziali e oggetti di culto — spiega Francesco Trevisan Gheller che condivide nei tour guidati le sue profonde conoscenze e la genuina passione per le vicende storiche e contemporanee della propria comunità di appartenenza —. Soprattutto sono molto frequentate le sinagoghe, a cominciare da quella della Scuola Levantina che sorse proprio per la preghiera nel 1545, e poi restaurata dall’architetto Baldassare Longhéna, al quale si è debitori anche della Basilica di Santa Maria della Salute e di Cà Rezzonico. Le sue decorazioni floreali, il pulpito così grande e atipico in legno, opera di Andrea Brustolino, costituiscono autentici capolavori». Francesco lo si segue, dunque, assai volentieri anche all’interno della Scuola Spagnola, ampia, luminosa dove la luce entra baldanzosa dai finestroni a illuminare i banchi. Oggi il Ghetto non è più isolato. Dal Sotoportego del Gheto Novo, attraverso il Ponte in legno del Gheto Novo, si salpa alle Fondamenta dei Ormesini dove le giovani coppie veneziane amano incontrarsi per i classici cicchetti nei bancari, le osterie tipiche, mentre i ragazzini si mettono alla prova remi alla mano sulle barche-scuola, tutto sotto gli occhi Alvise Cinelli: proprietario dell’Osteria Ruga di Jaffa, alle gustose sperimentazioni gastronomiche, abbina i progetti di bio agricoltura degli Orti sull’Isola di S. Erasmo, che vede attivi numerosi cuochi ai fini della sostenibilità ambientale. «Questa zona della città adesso è un connettore di eventi, situazioni, esperienze che fanno del Ghetto — dice Cinelli — un piccolo borgo a se stante in cui confluiscono persone da tutto il mondo che qui possono esprimere tutta la propria creatività». Tra essi, c’è sicuramente anche Bozidar Bukovic, restaurant manager arrivato dal Montenegro: «L’appartenenza religiosa non rappresenta più il motivo determinante per stare qui a vivere o lavorare — chiosa felicemente —, però il passato e l’architettura del Ghetto, la conoscenza del dazio ingiusto che ha pagato alla storia il popolo ebraico veneziano ci motivano ad amare, rispettare e trattare con cura questo luogo». corriere.it