Badia della SS. Trinità di Cava, la sua storia è scritta sul bronzo

di Giuseppe D’Onorio*

Ci siamo lasciati alle spalle il popoloso comune di Cava dei Tirreni in provincia di Salerno, situato nell’entroterra della costa amalfitana e, dopo aver percorso per circa 3 Km una strada in salita, arriviamo alla badia della SS. Trinità. Il complesso monastico è immerso nella verde valle attraversata dal Selano, piccolo corso d’acqua, ed è guardato dall’alto dall’antico abitato di Corpo di Cava, centro che nell’età di mezzo si caratterizzava per le alte mura e i bastioni. Oggi è il monte Finestra, con la sua altezza di 1138 m slm, a continuare a difendere la presenza, più che millenaria, dei monaci benedettini. È questo il luogo dove la forza della natura ha modellato nella roccia la grotta Arsicia, scelta dal nobile salernitano Alferio per condurre vita eremitica. Dal 1011 qui la ricerca di Dio ha preso dimora. La vita santamente condotta da Alferio fu di esempio a molti giovani che decisero di seguirlo; si edificò così un monastero per accoglerli tutti sotto la Regola di S. Benedetto. Tra i monaci vi era anche un certo Desiderio, futuro abate di Montecassino e poi, nel 1086, papa con il nome di Vittore III. In breve tempo la Badia dedicata alla SS.ma Trinità divenne il centro di una congregazione monastica con centinaia di chiese e monasteri dipendenti, sparsi in tutta l’Italia meridionale. Il prestigio raggiunto venne suggellato dalla presenza del papa Urbano II il quale, nel 1092, consacrò la basilica. Artefice di questa rapida ascesa fu l’abate Pietro I (1079-1123), nipote dello stesso Alferio. Con il trasferimento del papato da Roma ad Avignone e con i conflitti per la successione nel Regno di Napoli iniziò a venir meno l’autorità della Badia di Cava; tale situazione peggiorò durante il regime della Commenda che comportò la nomina di abati non redenti. La rinascita monastica, tuttavia, non tardò ad arrivare. Fu l’adesione, nel XVI secolo, alla Congregazione di Santa Giustina (poi Congregazione cassinese) a consentire un rinnovamento spirituale e culturale che si è protratto fino ai nostri giorni. Nel periodo Napoleonico prima e con la proclamazione del Regno d’Italia poi, i monaci benedettini riuscirono a salvare i beni della comunità. Fortunatamente il secondo conflitto mondiale non coinvolse direttamente la Badia e proprio per questo conserva quasi inalterato il ricco patrimonio artistico e archivistico. È dalla conoscenza di tale patrimonio che inizia la nostra visita. Abbiamo il privilegio che ad introdurci ad esso sia proprio l’abate Michele Petruzzelli, che guida la comunità monastica dal 2013. Con lui ci portiamo in basilica il cui impianto attuale risale alla seconda metà del Settecento. Vi entriamo dalla porta bronzea realizzata nel 1976 da Enrico Manfrini, lo scultore dei papi. L’interno dell’edificio sacro si presenta armonioso e pieno di luce riflettente sui policromi marmi che rivestono le pareti e la pavimentazione. Ammirato il pregevole ambone del sec. XII, probabile dono di Ruggero II re di Sicilia che in questa basilica fece seppellire la regina Sibilla, sua seconda moglie, ci rechiamo nella cappella che include la grotta di S. Alferio le cui reliquie si conservano sotto l’altare. Contribuiscono ad impreziosire la basilica anche il coro ligneo del Settecento, le numerose tele del XVI e del XVII sec., gli affreschi di Vincenzo Morani, il pregevole portale marmoreo di accesso alla sacrestia, con i due battenti lignei del Cinquecento.

Il complesso monastico offre altri luoghi che meritano di essere visitati: l’antica e la nuova sala Capitolare; il suggestivo chiostro dalle doppie colonne con vari capitelli romanici e archi rialzati; il cimitero longobardo e il Museo con sarcofagi romani, affreschi medievali staccati, numerose tele di un certo valore e poi considerevoli oggetti di arte sacra. La descrizione particolareggiata donataci dall’abate Michele si fa ancor più sapiente quando ci conduce nei luoghi “sacri” della cultura: la Biblioteca e l’Archivio. Qui si conservano libri miniati, incunaboli, numerosi documenti cartacei e più di quindicimila manoscritti pergamenacei, il più antico dei quali è del 792 d. C. Tra i più importanti codici vi sono le Etymologiae di Isidoro del secolo VIII, la Bibbia visigotica del secolo IX, il Codex Legum Longobardorum del secolo XI e il De Temporibus del venerabile Beda risalente al secolo XI, ai cui margini i monaci annotarono gli avvenimenti più importanti della badia e del mondo contemporaneo. Tali note a margine costituiscono gli Annales Cavenses. Alcuni dei preziosi codici conservati in archivio furono prodotti proprio nello scriptorium dell’abbazia.Terminata questa prima parte di visita che ha arricchito il nostro spirito, aperto la nostra mente e appagato i nostri occhi, andiamo alla scoperta di un’altra significativa pagina di storia che l’abbazia possiede, quella che è scritta sul bronzo delle campane. L’abate Petruzzelli ancora una volta mostra di possedere i doni della cordialità e del riguardo verso gli ospiti e ci conduce personalmente nel campanile della Badia, la cui ultima riedificazione risale al sec. XVII. All’interno della cella campanaria troviamo alloggiati 6 vasi sonori, due dei quali sono destinati a rintoccare le ore e i quarti dell’orologio. Alla vista dei manufatti ci rendiamo subito conto che siamo davanti a dei veri e propri documenti, questa volta non cartacei, come quelli che sono in archivio, ma di bronzo, perché tali sono le campane. I suoni che dall’alto della torre questi strumenti espandono hanno caratterizzato per secoli il paesaggio sonoro del luogo e continuano a farlo anche oggi. Certo nel passato i suoni erano più ricchi e vari grazie anche ad un’antica consuetudine che era presente nella Badia della SS. Trinità: era lo stesso abate che contribuiva, quando passava tra i fedeli, a diffondere un tintinnio particolare. Ciò accadeva quando nelle maggiori solennità liturgiche indossava i seguenti paramenti liturgici: un camice bordato in basso da 28 campanelli di argento dorato; una stola di seta e oro, con le immagini degli apostoli, avente 15 campanelle dorate; un manipolo con altri 15 piccoli manufatti sonori. Un rituale, questo, praticato sull’esempio di Aronne il cui manto sacerdotale, l’efod, di colore violaceo, era ornato in basso da sonagli d’oro e da melograni affinché risuonassero «ad ogni suo passo, facendo sentire il loro tintinnio nel Tempio, quale richiamo ai figli del popolo suo». Così tra i tintinnii provenienti dai paramenti indossati dall’abate e le voci possenti delle campane che nell’arco della giornata facevano sentire con regolarità le loro voci per richiamare i monaci al coro, al capitolo o al lavoro e invitare i fedeli ai riti sacri, non è difficile immaginare il fascino dell’atmosfera sonora che regnava dentro e intorno alla Badia. A dare il LA al suono delle campane nel monastero della SS. Trinità potrebbe essere stato l’abate Pietro I, il quale nel sec. XI innalzò la prima torre campanaria, e sicuramente la dotò almeno di un vaso bronzeo, ma non abbiamo notizie in merito. La prima campana, invece, di cui abbiamo testimonianza è quella del 1304 realizzata al tempo dell’abate Roberto. Lo veniamo a sapere proprio leggendo la lunga iscrizione presente sul campanone della Badia datato 1829 e troviamo conferma nella Cronaca monastica che riporta l’evento: «Est mensis majus, Indictio fitque secunda Millenis tercentis junctis quatuor annis. Hanc fieri fecit pius, ingenuusque Robertus Abbas campanam; sit salvus ubique repertus». L’iscrizione della campana maggiore, avente un diametro di base di 110 cm, corre lungo le quattro fasce della testata e consente di conoscere cronologicamente le sue sfortunate vicende, permette di sapere quali abati si prodigarono per restituire ad essa una nuova voce e indica i maestri dell’arte fusoria che eseguirono l’ultima lavorazione, quella del 1829. Eccola: + S(acrum) H(oc) TINTINNABULUM AB AB(ate) RUPERTO AN(no) 1304 B(eatae) M(ariae) V(irgini) AC D(ivae) FELICITATI M(artiri) CONSECRATUM QUUM FORTE CONFRACTUM/ + ESSET JOSEPH AB(bas) AN(no) 1624 AC POST ANNOS A FUSIONE 23 DENUO FRACTUM BERNARDUS PASCA ABB(as) NOVA PERACTA / + FUSIONE RESTITUERUNT TANDEM QUUM AN(no) 1825 IDEM FATUM SUBIISSET D(on) EUGENIUS VILLARAUT CAV(ense) AB(bas) ET CONGR(egationis) Vergine Maria e a Santa Felicita il manufatto, che svolse egregiamente il suo compito fino a quando, rimasto lesionato, venne rifuso nel 1624 dall’abate Giuseppe Volpicella di Sarno (1622-1627). Se la prima fusione garantì alla campana di durare oltre tre secoli, la seconda dopo solo 23 anni si ruppe.

Trascorsero molti anni prima di rimetterla in uso e ciò avvenne nel 1692 quando l’abate Bernardo Pasca (1690-1696) decise di far sentire di nuovo la sua possente voce. Nel PRAESES / + AN(no) 1829 INSTAURAVIT IOSEPHO RIPANDELLI ET FELICE TARANTINO FUSORIBUS. Prima della svasatura un’altra fascia contiene l’iscrizione con la lode a Dio, tre volte santo: SANCTUS DEUS SANCTUS FORTIS SANCTUS IMMORTALIS DEUS HOMO FACTUS DEUS NOSTRI CAUSSA MORTUUS ESTE ET RESURREXIT AN(no) 1829. Così, impresso sul bronzo, troviamo il compendio della storia della campana. L’abate Roberto nel 1304 consacrò alla Beata Vergine Maria e a Santa Felicita il manufatto, che svolse egregiamente il suo compito fino a quando, rimasto lesionato, venne rifuso nel 1624 dall’abate Giuseppe Volpicella di Sarno (1622-1627). Se la prima fusione garantì alla campana di durare oltre tre secoli, la seconda dopo solo 23 anni si ruppe. Trascorsero molti anni prima di rimetterla in uso e ciò avvenne nel 1692 quando l’abate Bernardo Pasca (1690-1696) decise di far sentire di nuovo la sua possente voce9. Nel 1825 il campanone subì la stessa sorte delle precedenti ma questa volta, passarono solo quattro anni quando don Eugenio Villaraut, abate di Cava (1829-1833) e preside della congregazione, nel 1829 incaricò i maestri Giuseppe Ripandelli e Felice Tarantino di lavorare di nuovo il bronzo. Anche il terzo bronzo del 1780 ci offre altre interessanti notizie. Esso venne commissionato dall’abate Liberio Ortiz (1778- 1781), il quale fece consegnare ai fonditori Felice e Giuseppe Cacciavillani12, la campana del 1636 lesionata e del peso di circa sette cantara. Questa era stata commissionata dall’abate Giuseppe Fusco da Sarno il quale, a sua volta, aveva fatto rifondere l’antica campana del 1450 che, essendo rotta, non svolgeva più la sua funzione. Ecco come si presenta l’epigrafe del bronzo del 1780: + S(anctus) DEUS + S(anctus) FORTIS + S(anctus) IMMORTALIS MIS(erere) NOB(is) EX AERE CAMPANAE / + PRIMUM AB A(anno) 1450 DENUO A(nno) 1686 CONFLATAE IN AMPLOREM FORM(am): / + REDACTA SS: TRINITATI ET DEIPARAE DICATA AC S(ancti) Anche le altre campane della Badia hanno la loro storia da raccontare, ma lo spazio a nostra disposizione non ce lo consente. Certamente continueremo ad indagare sul patrimonio campanaro della Badia perché dalla ricca documentazione archivista potranno emergere ancora interessanti notizie. La nostra visita alla badia della SS. Trinità di Cava dei Tirreni ha raggiunto il suo scopo. Andiamo via soddisfatti. Lasciamo il luogo monastico solo dopo aver salutato l’abate Michele Petruzzelli ringraziandolo del tempo che ci ha riservato. La sua sapiente presenza ci ha consentito di penetrare a fondo la spiritualità, l’arte e la cultura di questo millenario luogo sacro e di conoscere la storia scritta sui sacri bronzi. Mentre ci allontaniamo alcuni rintocchi provenienti dal campanile dalla Badia ci accompagnano. Questi suoni, ora, non sono più anonimi.

*Già sindaco di Veroli