Stipendi in Italia fermi da 20 anni, non è colpa dell’euro
Si è riavviato nelle ultime settimane un dibatto non nuovo, sulle ragioni della stagnazione dei salari reali in Italia. La questione è inequivocabile, specialmente nel confronto con gli altri paesi europei. Si contrappongono due posizioni: quelli che ritengono che la ragione sia dovuta ad una compressione dei salari nominali resasi necessaria per contenere i costi di produzione e rafforzare la competitività estera del Paese successivamente all’ingresso nell’euro e quindi nell’impossibilità di fare svalutazioni competitive della moneta; e quelli che invece ritengono che la compressione dei salari reali sia il risultato di una bassa crescita della produttività del settore produttivo italiano.
Diciamo subito che propendiamo per la seconda posizione. Diamo un’occhiata ai dati: basta guardare il livello del valore aggiunto per addetto in termini reali e delle retribuzioni per dipendente in termini reali nell’industria (in senso stretto, escludendo le costruzioni). Posto uguale a 100 nel primo trimestre del 1998. Per deflazionare le retribuzioni abbiamo usato l’indice dei prezzi al consumo. Partiamo dal 1998 perché nel maggio 1998 furono fissati i tassi di conversione tra le valute nazionali e l’euro e nel gennaio 1999 l’euro è stato introdotto come la valuta comune. I numeri confermano come le retribuzioni per dipendente siano cresciute poco negli ultimi 26 anni e come si sia registrato un significativo calo nel 2022 e 2023, quando l’inflazione ha rialzato la testa. Inoltre, la dinamica delle retribuzioni reali ricalca quella della produttività, misurata dal valore aggiunto per occupato. Anche i servizi — che rappresentano circa i tre quarti dell’economia italiana e che sono attività a maggior contenuto di lavoro che si concentrano nella ristorazione, nel turismo e nell’assistenza — hanno avuto una crescita della produttività praticamente nulla, mentre l’industria— che rappresenta circa un quinto dell’economia — ha fatto registrare un progresso intorno al 20%, basso ma non nullo.
Se allora la bassa crescita dei salari reali è da attribuire alla bassa crescita della produttività, che cosa c’è che non torna nel ragionamento in base al quale l’ingresso nell’euro ci ha costretto a contenere i salari nominali per non perdere competitività esterna in una situazione di cambio fisso in cui non si potevano più fare svalutazioni competitive?
La questione è che da quando siamo entrati nell’euro il costo del lavoro in termini nominali per unità di prodotto è cresciuto in linea con l’obiettivo di inflazione della Banca centrale europea, non di meno (circa il 70% negli ultimi 26 anni, il che corrisponde a circa il 2% all’anno). Questo ci dice che i salari nominali unitari sono cresciuti in Italia, oltre la crescita della produttività, più o meno per coprire l’inflazione. Quindi non c’è stata una compressione della crescita dei salari nominali. Inoltre, l’Italia non ha un problema di competitività estera, le esportazioni vanno bene e nella gran parte degli anni abbiamo raggiunto un avanzo delle partite correnti e non un disavanzo che potesse richiedere una svalutazione per essere corretto. Quindi il problema della bassa crescita dei salari va ascritto al fatto che abbiamo una crescita della produttività bassa: è su questo aspetto che la politica economica deve ragionare nel tentativo di riportare il Paese su un sentiero di più elevata crescita strutturale. corriere.it