Futurismo e graffitismo tra colore velocità parola e slancio vitale, ecco la mostra

Il primo movimento, la più precoce delle avanguardie artistiche europee, ha aperto il Novecento; il secondo lo ha chiuso, conquistando di diritto la scena del XXI secolo e portando l’arte ancora di più a uscire da musei e cornici, e a conquistare strade e muri. Futurismo italiano e graffitismo americano, due mondi apparentemente divergenti, anche per la distanza geografica e il contesto storico, sono in realtà legati da una insospettabile continuità e da una comune celebrazione del dinamismo, della parola, della modernità, del futuro non come meta ma come energia in evoluzione, del conflitto come rottura con il passato e la tradizione, nonché dalla forza dirompente esercitata contro le convenzioni – non solo artistiche – tradizionali. Insomma, dal desiderio di infrangere le regole e rompere con il passato. A mettere in relazione e correlazione per la prima volta questi due linguaggi è la mostra «Visions in Motion – Graffiti and echoes of Futurism»: visitabile alla Fabbrica del Vapore di Milano fino al 23 marzo 2025, e curata da Carlo McCormick con la collaborazione di Edoardo Falcioni e Maria Gregotti, deve il suo nome all’opera «Visions in motion» di John “Crash” Matos, realizzata appositamente per l’esposizione. Giacomo Balla, Fortunato Depero, Umberto Boccioni, Leonardo Dudreville, Enrico Prampolini si trovano a dialogare, in modo immaginario, con Jean-Michel Basquiat e Keith Haring, o figure come il già citato John “CRASH” Matos, uno dei pionieri della “old school” graffiti art, Futura 2000, maestra di astrazione con i suoi atomi e galassie, il visionario Rammellzee e la prima artista donna affermatasi nel Graffitismo, Lady Pink. Condividendo tutti il desiderio di utilizzare l’arte come strumento per catturare il movimento, la velocità e l’energia del proprio tempo. Attraverso un progetto articolato in sezioni – che fungono da parole chiave e fili rossi condivisi – l’esposizione evidenzia l’esistenza di due percorsi paralleli lungo i quali si sono mossi i due rivoluzionari movimenti, attraverso i lavori di 39 artisti (16 futuristi e 23 writer) e 150 opere distribuite in cinque sezioni e una documentale che regala sorprese inedite come alcuni testi e lettere autografe di Filippo Tommaso Marinetti. Il dinamismo, ad esempio, è stata la chiave utilizzata da entrambe le correnti per interpretare movimento e modernità con un linguaggio visivo audace e innovativo, nel quale il colore ha assunto un ruolo protagonista. La città, simbolo dell’energia moderna e del cambiamento, entità vivente e non luogo statico, organismo che pulsa, che raccoglie i battiti di chi la abita, diventa uno dei soggetti privilegiati delle rappresentazioni, e le bombolette permettono di raccontarne la dinamicità in un atto di creazione istantanea. Un atto senza controllo, che trasporta lo spettatore quasi in una dimensione di sogno. «I graffiti hanno rappresentato sicuramente una rottura, ma in questa visione è stato un errore non aver osservato come questo movimento poteva affiancarsi a diversi dialoghi inediti, cosa che accade in questa mostra, che mette in evidenza la vicinanza degli stessi artisti graffitisti al futurismo. Artisti che si sono dichiarati o scoperti vicini al movimento futurista, per il dinamismo e per il concetto della velocità in particolar modo», dichiara il curatore americano McCormick. Senza dimenticare il filo rosso della musica: perché se i futuristi trovarono ispirazione nel rumore meccanico e industriale, i graffitisti si sono lasciati trasportare dai ritmi urbani dell’hip-hop e del funk. Lanciando un grido all’immobilismo anche attraverso la destrutturazione dell’individuo tradizionale, mostrandone desiderio di ribellione e caos interiore. E ancora, l’impulso rivoluzionario trova voce anche attraverso la forza evocativa delle parole. Se per i futuristi le parole che compongono il testo perdono la loro funzione sintattica-grammaticale, e diventano strumento per evocare sensazioni, immagini, suoni, nel Graffitismo il tag è un simbolo di presenza, di identità, di rivendicazione di uno spazio proprio. E anche la guerra, in apparenza vista come tema di scontro, assume una dimensione comune nella misura in cui da un lato viene concepita come un atto di rigenerazione, una forza che distrugge per creare, dall’altro – a partire da Rammellzee e dalle correnti del cosiddetto Afro-futurismo – diventa un mito, una lotta contro l’oppressione, un inno all’indipendenza e all’autodeterminazione, un modo di raccontare storie di resistenza contro la costrizione. corriere.it