Balvano, 642 morti la più grande tragedia ferroviaria della storia italiana
di Laura Brussi
Un tragico primato italiano è quello della massima sciagura ferroviaria mondiale avvenuta in assenza di fattori naturali, deragliamenti e altre cause tecniche: si tratta della strage di cui fu Vittima la stragrande maggioranza dei viaggiatori presenti sul treno partito da Napoli nel pomeriggio del 2 marzo 1944 e diretto a Potenza. Il numero dei Caduti non è stato mai definito con precisione (1) ma i corpi senza vita deposti al mattino successivo sul marciapiede della stazione di Balvano, nell’entroterra della Lucania, comprese sedici Vittime poi recuperate in galleria, furono verosimilmente 642.
Non era accaduto alcun disastro nel senso tradizionale della nomenclatura ferroviaria: più semplicemente, il convoglio si era fermato all’interno della galleria detta “delle Armi” nel tratto compreso fra la stazione di Balvano e quella successiva di Bella – Muro. Ciò, a causa di un coacervo di fattori negativi, con importanza prioritaria per l’enorme sovraccarico, la cattiva qualità del carbone usato per alimentare le due vaporiere, la forza di traino carente e mal calibrata, e le condizioni ambientali che impedivano una normale aerazione del tunnel ed avevano indotto un alto grado di scivolosità delle rotaie.
Molto si è scritto su quella tragedia, ma non si può certo dire che la sua memoria sia rimasta viva nella coscienza popolare, fatta eccezione per i distretti originari delle Vittime, provenienti in larga maggioranza dalla Campania, e dalla stessa Basilicata. Non a caso, in una celebrazione del 2004, ricorrendo il LX anniversario della strage, fu provocatoriamente suggerito che il 3 marzo diventasse “Giorno della dimenticanza” tenuto conto che il momento politico non aveva voluto l’elevazione a Ricordo annuale di una strage dovuta in buona misura a pesanti responsabilità oggettive.
Bisogna rammentare che in quel tardo inverno del 1944 la guerra si era attestata sulla Linea Gustav, che tagliava l’Italia in due tronconi, correndo dal Tirreno all’Adriatico sulla direttrice Gaeta – Cassino – Ortona, dove la pressione degli Alleati s’infranse per parecchi mesi, nonostante il bombardamento della celebre Abbazia benedettina, privo di effetti risolutivi. Ne consegue che Campania e Lucania (come da denominazione d’epoca della predetta Basilicata) erano retrovie ancora prossime al fronte, governate dall’Amministrazione Militare delle forze di occupazione, mentre il giovanissimo Regno del Sud poteva esercitare una mera sovranità formale e geograficamente minoritaria anche nell’ambito del territorio italiano già “liberato”. La stessa gestione ferroviaria era affidata alle predette forze, che amministravano le infrastrutture e il materiale rotabile in funzione delle proprie esigenze strategiche e tattiche, ovviamente prioritarie.
A Napoli, a Salerno e in tutta la zona percorsa dal treno 8017 il massimo problema era quello di combattere la fame e di procurarsi il minimo indispensabile alla sopravvivenza. Fra le non facili scelte possibili c’era l’accesso all’entroterra lucano per barattare abiti, stoviglie ed altre povere merci trasportabili, in cambio di legumi, olio, farina ed altri generi di prima necessità, che era possibile trovare presso i contadini, pur con comprensibili difficoltà, comprese quelle di prezzo. Si disse, persino nel primo Consiglio dei Ministri del Governo Badoglio immediatamente successivo alla strage, che il treno era pieno di “contrabbandieri” e di “clandestini” ma il giudizio fu certamente avventato: in gran parte, trasportava persone in condizioni di forte indigenza, se non anche di disperazione, tra cui un numero non trascurabile di sbandati (2).
Le responsabilità morali di Pietro Badoglio e dei suoi Ministri a fronte di siffatta teoria, quasi che fossero affievolite dal fatto che qualcuno non avesse pagato il biglietto, sono fuori discussione. Nondimeno, va affermato subito che le responsabilità maggiori furono quelle dell’Autorità Militare Alleata, nei cui confronti il Governo italiano era ovviamente vassallo, e totalmente impossibilitato a prestare una reale e fattiva cooperazione.
Spettava alle forze di occupazione gestire la circolazione ferroviaria, e quindi la composizione e la circolazione dei treni, tanto è vero che la ferrovia Battipaglia – Potenza era agibile per il servizio civile soltanto di mercoledì, mentre negli altri gi orni era soltanto tollerato il trasporto notturno di viaggiatori nei carri merci dimessamente attrezzati allo scopo, come accadde il 2 marzo, quando il treno 8017 fu programmato con criteri assurdi: a parte la dotazione di lignite jugoslava che aveva largamente peggiorato il rendimento di trazione rispetto al carbone fossile utilizzato prima dell’armistizio di settembre, la portata complessiva rimase notevolmente inferiore a quella delle due locomotive a vapore entrate in servizio a Salerno, a causa dell’elevato numero di passeggeri e delle merci. Entrambe le locomotive, tra l’altro, furono dislocate in testa, contro ogni buona regola, senza dire che i macchinisti potevano comunicare soltanto col mezzo acustico perché le posizioni delle cabine di guida erano sfalsate.
L’allestimento, il controllo e la gestione del convoglio restarono avulsi dalla normale diligenza operativa, con un pressappochismo tanto più grave perché pochi giorni prima era già accaduto un incidente analogo nella galleria di Baragiano, pochi chilometri oltre Balvano, dove un ferroviere aveva perso la vita. Per la qualità del carbone, che avrebbe avuto un ruolo fondamentale nella tragedia, non erano mancate le proteste, ma gli Alleati furono irremovibili, anche perché le disponibilità erano relative, e naturalmente subordinate alle prioritarie esigenze belliche.
Il personale imbarcato sul treno 8017 era costituito da sette italiani, quali macchinisti, fuochisti e frenatori, ma costoro non avevano la benché minima possibilità di opporsi alle decisioni dell’Autorità Militare e dovevano limitarsi a eseguire gli ordini, con margini di autonomia che nell’emergenza sarebbero stati nulli. A notte inoltrata, dopo che il convoglio era già stato inondato dal fumo e dalle esalazioni nelle strette gallerie della tratta precedente, con ovvie conseguenze sulle condizioni dei passeggeri già oberati dal sonno, accadde l’irreparabile nella tratta fra Balvano e Muro: il convoglio si bloccò nel tunnel “delle Armi” (con un solo binario come tutta la linea) per effetto congiunto del carico, dell’umidità delle rotaie, e per l’impossibilità di manovrare in avanti o indietro, mentre l’ossido di carbonio uscito dai forni delle locomotive (una delle quali con venti anni di servizio, mentre la seconda era un residuato austriaco della Grande Guerra), ristagnando in assenza totale di ventilazione, uccise per soffocamento, in tempi rapidi, buona parte di coloro che si trovavano sul “treno della morte”.
I soccorsi, data la situazione, non furono tempestivi. Soltanto in prima mattina, intorno alle cinque, fu possibile compiere un primo intervento di ricognizione con la locomotiva di un treno giunto in tempi successivi a Balvano, mentre il recupero del convoglio bloccato ebbe luogo soltanto alle 8,40 con l’ausilio di un’altra locomotrice giunta da Baragiano. Solo a quel punto ebbe inizio l’opera di allucinante composizione delle salme sui marciapiedi della stazione, comprensibilmente caotica, oltre che affrettata dai predetti ordini degli Alleati.
Non mancarono fatti ancora più allucinanti. Basti ricordare i sedici Caduti dal treno all’interno della galleria – di cui in premessa – verosimilmente nel tentativo di cercare un’improbabile salvezza: il bilancio ufficiale, come detto, sarebbe stato di 642 Vittime, che avrebbe potuto essere inferiore qualora il Medico condotto accorso sul posto avesse potuto utilizzare la sua scorta di adrenalina, unica disponibilità terapeutica del momento, nel tentativo di salvare chi dava ancora qualche segno di vita. Gli fu possibile soltanto in parte, perché sopravvennero due ufficiali Alleati che impedirono la prosecuzione di quell’opera umanitaria e certamente prioritaria, e che accelerarono oltre ogni logica umanitaria l’inumazione dei cadaveri in fosse comuni (la temperatura era molto rigida, c’era la neve e quindi non sussisteva il pericolo immediato di epidemie).
Gli americani, ovviamente, avevano altre priorità, a cominciare da quella di tenere sgombra la linea per il movimento dei treni militari: quella stessa notte, un convoglio carico di soldati diretti al fronte di Cassino era rimasto bloccato a Baragiano in attesa che fosse liberato il tunnel di Balvano. E’ verosimile ritenere, peraltro, che fossero soprattutto preoccupati di elidere, o meglio, di cancellare a buon mercato le proprie responsabilità.
Per quanto riguarda le Vittime ritrovate in galleria, probabilmente straziate durante la manovra di recupero delle motrici e dei 45 carri, ne fu possibile la traslazione all’esterno soltanto ad operazione conclusa. Si aggiunse qualche episodio di sciacallaggio a danno delle povere Vittime, come quello del prof. Jura, diretto all’Università di Bari, alla cui Salma sarebbe stato tagliato un dito per sottrargli l’anello (caso unico, perché quei morti non avevano gioielli ma oggetti da barattare, come il vecchio cappotto militare che un reduce aveva voluto mettere nel suo bagaglio, nonostante le proteste della moglie, più propensa alla riutilizzazione per qualche figlio).
Sta di fatto che l’opera di riconoscimento e identificazione delle Vittime fu affrettata e largamente parziale, anche per l’estrema difficoltà delle comunicazioni nell’Italia del 1944, senza dire della reticenza informativa di cui si diceva. Eppure, gli Alleati avrebbero potuto provvedere, se non altro, a fotografare i Caduti, quasi tutti perfettamente riconoscibili perché, fatte salve le eccezioni di cui si è detto, avevano trovato un’angosciosa morte per soffocamento. Non fu possibile identificare nemmeno tutti i pochi superstiti, anche se dalle testimonianze emerge che alcuni di essi riportarono danni mentali permanenti.
Quanto all’accusa di Pietro Badoglio, secondo la quale i passeggeri del treno 8017 sarebbero stati “di frodo” non è azzardato rammentare che, all’indomani di Caporetto, il medesimo Generale aveva sollevato dubbi, assieme a Luigi Cadorna, sullo spirito combattivo dei soldati, ignorando le proprie responsabilità, o tentando di trasferirle sui quadri inferiori e sulla truppa. “Mutatis mutandis” è ciò che avvenne in quel plumbeo inverno del 1944 e nella nuova eclisse della Patria, senza dire che, come fu dimostrato, alcuni viaggiatori avevano pagato un regolare biglietto pur viaggiando in carro merci e in un convoglio gestito dall’Amministrazione Militare Alleata: in altri termini, se di frode si può parlare, questa sarebbe imputabile, con tutta evidenza, soltanto alla controparte (3).
Su tale ultimo argomento un giudizio probante e definitivo è quello di Gennaro Francione, ex Magistrato nipote di una Vittima, secondo cui, anche per chi avesse usufruito del treno 8017 senza titolo di viaggio, si sarebbe potuto parlare, al massimo, di un’illiceità amministrativa sanabile col pagamento di quanto dovuto, ma non sarebbe venuto comunque meno il diritto al risarcimento, a prescindere dalle responsabilità penali dei gestori da giudicare nelle sedi competenti.
L’interesse del Governo italiano, rivolto a promuovere il silenzio e l’oblio, venne a coincidere con quello dell’Autorità Militare di occupazione, e la guerra, per parte sua, fece il resto, con i timori e le ansie che suscitava in tutti, a cominciare dalla popolazione civile. Fu così che di Balvano non si sarebbe più parlato per parecchio tempo, con lungo e colpevole silenzio: l’Amministrazione delle FS aveva già rifiutato legittimamente ogni responsabilità, tanto che solo alla fine degli anni Cinquanta un modesto risarcimento fu erogato, a seguito di singole vertenze, ad alcuni eredi dei Caduti, previo riconoscimento, non senza qualche forzatura, della qualifica di Vittime civili di guerra.
In altri termini, è come se i Caduti di Balvano fossero stati uccisi una seconda volta. E’ vero che c’era uno stato di belligeranza in atto; però, quei Caduti (alcuni dei quali costretti anche all’anonimato a causa della fretta imposta per la sepoltura) non s’immolarono per un fatto riconducibile alla guerra, ma scomparvero per un’esigenza di vita propria e familiare, in un evento privo di qualsiasi collegamento sia ideologico sia politico, da attribuire alle predette responsabilità.
Nel 1951, il quotidiano inglese “Times” riprese in esame la storia di Balvano, ammettendo il silenzio dell’epoca e dei tempi successivi, ma interpretandolo alla luce dell’esigenza di “non deprimere ulteriormente il morale degli italiani” impegnati nell’uscita dal conflitto e nella difficile opera di ricostruzione: una teoria non priva di aspetti surreali, perché l’approfondimento delle responsabilità avrebbe potuto e dovuto costituire, se non altro, una sorta di attenuante del dolore, tento conto che quelle attribuibili alle Vittime erano inesistenti, e che le maggiori erano sicuramente istituzionali.