Cannabis, la Cassazione: coltivare in casa non è reato
Non è penalmente punibile chi in casa coltiva piantine di marijuana per uso personale: con una decisione adottata appena prima di Natale, le Sezioni Unite della Cassazione cambiano linea rispetto alla propria decisione del 2008 sulla coltivazione di piante dalle quali siano ricavabili sostanze stupefacenti, e mettono fine alle successive oscillazioni della giurisprudenza delle singole sezioni della Suprema Corte. Composte da otto consiglieri e presiedute dal Primo Presidente della Corte di cassazione, le Sezioni Unite sono la massima espressione della giurisprudenza di legittimità nel risolvere i contrasti insorti tra le decisioni delle singole sezioni sulle questioni di speciale importanza.
Nel 2008 le Sezioni Unite avevano ritenuto che coltivare la cannabis costituisse reato indipendentemente dal fatto che il prodotto fosse destinato ad uso esclusivamente personale: e questo perché nella fattispecie di coltivazione (punibile fin dal momento di messa a dimora dei semi) ravvisavano una notevole «anticipazione» della tutela penale rispetto al «pericolo del pericolo» di incrementare le occasioni di cessione della sostanza e lo spaccio dello stupefacente. A distanza di anni, però, nelle sentenze di merito (Tribunali e Corti d’Appello) approdate man mano alla giurisprudenza delle singole sezioni della Suprema Corte, erano riaffiorati due contrapposti orientamenti. Uno, minoritario, tendente a valutare inoffensiva la coltivazione se in concreto irrilevante nell’aumentare l’ulteriore diffusione della sostanza, come appunto nell’uso esclusivamente personale e di minima entità (per esempio fino a due piantine); l’altro, maggioritario, granitico invece nel ritenere la coltivazione di per sé reato, a prescindere dalla finalità alla quale sia preordinata o dalla quantità di principio attivo.
In mezzo, varie sfumature: c’erano state sentenze che agganciavano la punibilità non alla sola quantità di principio, ma anche all’estensione e livello di strutturazione della coltivazione; sentenze che ammettevano il beneficio della «tenuità del fatto» nel caso la coltivazione si esaurisse nella germogliazione di un seme; e sentenze che escludevano la ventilata incostituzionalità della punibilità anche dell’uso personale dello stupefacente coltivato, riconoscendo alla discrezionalità del legislatore la scelta di non agevolare comportamenti propedeutici all’approvvigionamento di stupefacenti per uso personale.
Ora le Sezioni Unite della Cassazione, rispondendo a un quesito sollevato dalla terza sezione in un caso nel quale la Corte d’Appello di Napoli aveva condannato un 29enne a 1 anno per coltivazione di due piantine e cessione di uno spinello, muovono da una premessa: il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile «indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza», giacché sono «sufficienti la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine a giungere a maturazione e produrre sostanza stupefacente». Ma aggiungono un «però» decisivo: «Però non riconducibili all’ambito di applicazione della norma penale» sono «le attività di coltivazione di minime dimensioni svolte in forma domestica, che, per le rudimentali tecniche utilizzate, per lo scarso numero di piante, per il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, per la mancanza di ulteriori indizi di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore». corriere.it