È morto Mikhail Gorbaciov
Mikhail Gorbaciov, ex presidente dell’Unione sovietica, è morto all’età di 91 anni, dopo una lunga malattia. Gorbaciov — che, da ultimo segretario generale del Partito comunista sovietico, pose fine alla Guerra fredda con gli Stati Uniti, ma non riuscì a evitare il collasso dell’Unione sovietica — fu l’ultimo leader dell’Urss, e venne insignito nel 1989 della Medaglia Otto Hahn per la Pace e, nel 1990, del Nobel per la pace. Secondo quanto riferito dalla Tass, sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy, a Mosca, in una tomba di famiglia, dove potrà riposare accanto alla moglie Raissa. Della guerra di Putin all’Ucraina aveva detto, secondo il direttore dell’Eco di Mosca, pochi mesi fa: «Questa invasione ha rovinato tutti i suoi precedenti sforzi per la Russia».
Quando uscì il suo nome dalla riunione del Politburo che doveva scegliere il successore di Konstantin Chernenko, tutti furono presi alla sprovvista. Il candidato più quotato era Viktor Grischin, 68 anni, un altro esponente della gerontocrazia che da tempo governava l’Urss. Dopo Leonid Brezhnev, morto a 76 anni nel 1982, era venuto il sessantottenne Yurij Andropov, e poi, dopo soli due anni, il settantatreenne Chernenko che se n’era andato il 10 marzo 1985.
Invece questa volta il vertice del partito aveva accolto la raccomandazione che Andropov aveva fatto in punto di morte.
«Scegliete un giovane, scegliete Gorbaciov perché lui è l’unico che può ridare slancio al Paese, rimettere in piedi l’Urss e ridare fiato al partito».
Così il cinquantaquattrenne Mikhail Sergeyevich, che da poco era diventato membro effettivo del supremo organo di governo dell’Urss, l’11 marzo del 1985 si ritrovò sulla poltrona di Gensek, a coronamento di una carriera brillante, iniziata nella nativa regione di Stavropol, a ridosso della Crimea.
Era lì che il giovane Mikhail, nato nel 1931, aveva vissuto il disgelo dell’epoca di Krusciov, che tante speranze aveva suscitato nei quadri più dinamici. Ed era lì che era nata la sua fortuna quando si era trovato, come segretario del partito per la regione, ad accompagnare in vacanza il potente capo del Kgb Andropov, che lo aveva preso sotto la sua ala protettiva.
Già il suo aspetto, il fatto che la moglie Raissa comparisse in pubblico, il voler girare il Paese e incontrare la gente furono visti come una rivoluzione. Si parlò di un nuovo disgelo, mentre lui spiegava che il Paese aveva bisogno di una «accelerazione» per tentare di riguadagnare il terreno perduto nei confronti dell’Occidente.
La situazione, come sapeva bene il Kgb, era disastrosa. Alla stagnazione brezheviana era seguita negli anni Settanta la ripresa della corsa agli armamenti. Ronald Reagan aveva dato il colpo finale con il suo programma di Guerre Stellari che aveva gettato nel panico i militari e aveva fatto saltare ogni piano economico.
L’Urss non ce la faceva a produrre generi di consumo, le spese militari erano folli, l’avventura in Afghanistan («per contenere l’avanzata del capitalismo») stava dissanguando il Paese in tutti i sensi. All’«accelerazione», con gli incentivi alla produttività, fece seguito il programma per legare i salari al lavoro, abbandonando l’egualitarismo.
Poi arrivarono la Perestrojka e la Glasnost. Ristrutturazione del sistema economico sovietico con l’introduzione di fortissimi elementi di mercato. E in più la Trasparenza, la partecipazione del popolo di cui Gorbaciov ricercava il consenso.
Di pari passo andava avanti la trasformazione politica. Via i vecchi conservatori dai posti chiave, nel governo e nel partito: Eduard Shevardnadze prendeva al ministero degli Esteri il posto di Andrej Gromiko, sopravvissuto ai tempi di Stalin. Andrej Sakharov ritornava a Mosca dall’esilio interno. Veniva convocata la Conferenza del Pcus nella quale per la prima volta nasceva una specie di «corrente», la piattaforma democratica. Poi le elezioni libere, fino alla storica abolizione nel 1990 dell’articolo 6 della Costituzione che stabiliva il ruolo guida del partito.
Intanto il gensek (generalnij sekretar) affrontava la folle corsa agli armamenti, tentando di convincere gli americani che l’immagine che proiettavano di lui le tv e i giornali popolari era quella vera. La prima a credere in lui fu Margaret Thatcher: «We can do business together» (possiamo lavorare insieme). Al primo vertice, a Ginevra, Reagan non fece grosse aperture. Ma poi gli accordi sulla limitazione delle testate, dei missili intercontinentali, arrivarono, con Reagan e con Bush padre.
L’Urss poteva ora destinare le sue risorse a migliorare il tenore di vita dei suoi cittadini.
Forse, però, era ormai troppo tardi.
La resistenza dei burocrati, dei direttori delle fabbriche, di tutta la nomenklatura era fortissima. Gorbaciov non ebbe il coraggio di spingere fino in fondo e, per questo, venne abbandonato dai riformisti più accesi, come Eltsin e Shevardnadze.
La campagna contro la vodka aveva contribuito a minare la sua popolarità che all’inizio era stata altissima. Poi venne il programma dei cinquecento giorni di Grigorij Yavlinskij, che avrebbe dovuto portare all’introduzione in Urss dell’economia di mercato. Davanti agli attacchi durissimi dei vecchi boss, da Ligaciov a Ryzhkov, Gorby, come lo chiamavano all’estero, fece marcia indietro. Abbandonò il giovane economista per adottare invece un programma assai più moderato.
Fu avviata la riforma monetaria che portò alla corsa verso gli accaparramenti nei negozi. Ore di fila per ricevere una salsiccia. Razionati zucchero, sigarette, sapone. I radicali si erano raccolti attorno a Boris Eltsin che dopo essere stato cacciato dal vertice era «resuscitato» con l’elezione trionfale alla presidenza del Soviet Supremo russo. L’impero iniziava a sfaldarsi.
La vittoria di Solidarnosc alle elezioni polacche del 1989, l’apertura delle frontiere da parte dell’Ungheria, il crollo del muro di Berlino il 9 novembre dello stesso anno, al quale Gorbaciov ebbe l’accortezza di non opporsi. Poi la «recessione» delle tre repubbliche baltiche. Gorbaciov tentò di tenere assieme i cocci dell’Urss ricorrendo al Trattato dell’Unione, tra tutte le altre Repubbliche. Ma la situazione si faceva sempre più difficile.
Il segretario, diventato nel frattempo presidente dell’Urss, era incerto, ondeggiava tra i riformisti e i conservatori. Questi ultimi ebbero l’impressione che avrebbe avallato una loro iniziativa per rimettere le cose a posto. E alla vigilia della firma dell’accordo, il 19 agosto 1991, tentarono il colpo di Stato. Sulla carta erano in grado di controllare il Paese: Primo Ministro, ministro dell’Interno, capo del Kgb. Non avevano messo nel conto il fatto che i cittadini dell’Urss erano cambiati. E che Boris Eltsin non era disposto a cedere.
Quando Corvo Bianco si presentò ad arringare la folla davanti al palazzo del Soviet Supremo e salì su uno dei carri armati mandati dai golpisti, l’esercito non reagì. Il colpo di stato era fallito (solo il ministro dell’Interno Pugo si suicidò, gli altri finirono brevemente in prigione).
Il potere oramai era nelle mani del capo della Russia, la repubblica più importante dell’Urss.
Di fronte a un nuovo tentativo di Gorbaciov di rilanciare il Trattato dell’Unione, Eltsin passò all’attacco. Assieme ai capi delle altre due repubbliche slave, Bielorussia e Ucraina, decise l’8 dicembre lo scioglimento dell’Urss. Il giorno di Natale del 1991 la bandiera sovietica veniva ammainata dal pennone più alto del Cremlino.
Gorbaciov doveva lasciare una poltrona che non esisteva più.
Il «dopo» scioglimento dell’Urss è una storia diversa. Amatissimo all’estero, l’ultimo gensek era odiato in patria. Un suo tentativo di rientrare sulla scena politica, alle elezioni del 1996, fu catastrofico: riportò meno dell’1 per cento dei voti.
Ritiratosi nella fondazione che portava il suo nome, ebbe un altro durissimo colpo nel 1999, con la morte dell’amata Raissa.
Con Putin, Gorbaciov era uscito in Russia dall’elenco dei «non esistenti» e aveva ricominciato ad avere un ruolo anche di rappresentanza internazionale. Poi, di fronte alla svolta autoritaria di Vladimir Vladimirovich, aveva preso le distanze dal Cremlino, criticando più volte le scelte di Putin. Fino a diventare uno dei proprietari (assieme all’oligarca Aleksandr Lebedev) del giornale d’opposizione Novaya Gazeta per il quale aveva lavorato Anna Politkovskaya.
Nel marzo 2021, per il suo novantesimo compleanno, il portavoce del presidente parlando con i giornalisti disse semplicemente che al Cremlino si guarda a Gorbaciov come a una «parte della storia, con grande rispetto». Certamente saranno molti di più quelli che lo piangeranno nel resto del mondo e soprattutto in Germania. corriere.it