È morto Totò Schillaci, eroe delle Notti magiche
Salvatore Schillaci, conosciuto da sempre nel mondo del calcio come Totò, è morto all’età di 59 anni dopo una lunga malattia. L’ex calciatore, eroe indimenticabile delle Notti Magiche dei Mondiali di Italia ’90, da tempo era affetto da un tumore. Schillaci era stato ricoverato nei giorni scorsi all’Ospedale Civile di Palermo in seguito a un peggioramento, poi era stato trasferito a casa. Schillaci era stato operato due volte al colon, poi sembrava avesse sconfitto la malattia e l’anno scorso era comparso in tv a Pechino Express. Quanto tempo ci vuole per diventare un campione? Un giorno, un anno, una vita? A Totò Schillaci bastò una notte. Solo che era magica. Quella del debutto azzurro, il 9 giugno, ai Mondiali di Italia ’90. La partita con l’Austria non voleva sapere di schiodarsi. Uno zero a zero che faceva presagire fischi e polemiche. Dove siamo campioni del mondo da sempre. La Nazionale di Vicini aveva un solo risultato a disposizione: vincere il Mondiale. A cominciare da quella prima, semplice, abbordabile partita. Totò stava in panchina con nei piedi la frenesia di chi vuole spaccare il mondo e la disciplina di chi fa parte di un gruppo. L’Austria era la vittima sacrificale per tutti quei tifosi che già festeggiavano sugli spalti dello stadio Olimpico di Roma. Ma se prendi due pali, capisci subito che non sarà una partita da volerci il pallottoliere per ricordarsi i gol. Poi il commissario tecnico sibilò una parola sola a un giocatore azzurro che stava dietro di lui che non si perse neanche una sillaba: «Scaldati!». Per Totò neanche il tempo di pensarci. Tutto stava avvenendo troppo in fretta. Non era certa nemmeno la convocazione per il Mondiale, figuriamoci giocarselo. Così non perse l’attimo. Quattro minuti per spostare la palla dal palo alla porta. Un gol da urlo. Da non crederci neanche chi l’aveva segnato. Gli occhio di Totò dicevano tutto. Entrò in quella che i telecronisti chiamavano «trance agonistica». Solo che la sua durò quasi un mese. Gli sportivi lo sanno. Ci sono partite che agli attaccanti basta pensare alla porta per fare gol. Schillaci diventò una macchina. Capocannoniere di un Mondiale che meritavamo più di una semifinale. Ma forse era destino. Sollevare la coppa avrebbe reso meno umana l’impresa dei ragazzi di Vicini. Totò Schillaci veniva da più lontano di una panchina azzurra. Il posto in squadra se l’era sempre sudato persino quando si trattava di giocare per l’Amat di Palermo. Bravo era bravo ma sembrava dovesse dimostrare qualcosa in più degli altri. Poi la carriera si incanalò dentro solo il perimetro della sua Sicilia. Dove era nato il primo dicembre del 1964 e dove ieri ha lasciato per l’ultima volta il rettangolo del gioco della vita. Nella sua isola ha imparato un calcio avanti anni luce, solo che lui non lo sapeva. A Messina s’illuminò d’immenso calcistico per merito di due visionari del pallone: Franco Scoglio e Zdenek Zeman. Gente che il calcio non era solo fantasia ed estro. Tanta tattica, corse su e giù per il campo. Allenamenti da lasciarci il cuore. La Juve ci vede lungo e lo ingaggia. Ai tifosi con i capelli grigi fa venire in mente la parabola di un altro siciliano venuto dal nulla: Pietro Anastasi. Due scommesse che solo dopo averle vinte tutti sono capaci di dire che non ci voleva molto. Totò nella squadra bianconera trova subito spazio e gol. Quindici nella prima stagione, forse la sua migliore in assoluto. Una scelta felice perché è anche il campionato che porta ai Mondiali in Italia. Schillaci entra di diritto nelle scelte di Vicini, anche se all’inizio stava ai margini. I suoi occhi spiritati dopo ogni gol mandano in visibilio una Nazione. Gli profetizzano che sarà il nuovo Paolo Rossi, come lui esploso inaspettato al momento giusto. Sono gli occhi di un uomo rimasto ragazzo. Che l’Olimpico è ancora il campetto di periferia e fare gol provi la stessa gioia ora come allora. È il bambino che corre dietro a un pallone e quando incontra il suo piede lo calcia che di più non si può. Sono davvero notti magiche. Irripetibili davvero. Infatti saranno l’apice di una carriera che doveva durare di più a quei livelli. Quando le notti svaniscono arriva un’alba con nuvole basse e scure. Nella Juve dei tanti campioni, gli screzi con Roberto Baggio. Le incomprensioni con chi doveva più gratitudine al ragazzo d’oro del Sud. Il bianconero non gli si addiceva più, però per lui c’erano sempre squadsre pronte a svenarsi. Lo acquistò l’Inter. Vinse ancora una Coppa Uefa. Un bilancio positivo, l’ambiente lo rinvigorì, i rapporti con il presidente Ernesto Pellegrini eccellenti, ma il fisico non lo seguì. I primi infortuni e finì presto ai margini. In Italia nessun ingaggio per un campione della sua levatura.
La sentenza Bosman non ancora pronunciata e anche l’Europa si chiuse. Andò in Giappone, nel Jubilo Iwata. Il primo italiano. Segnò qualcosa come 56 gol in 76 partite. Praticamente sempre. A Tokyo e dintorni era sempre Totò-gol. Il resto sono comparsate televisive una volta finito di giocare. Ma per tutti i tifosi resta sempre il ragazzo della staffilata che annientò l’Austria. corriere.it