Filosofia oltre i muri
Plus ultra o non plus ultra? (Questioni filosofiche nel personaggio di Ulisse)
di Elisabetta Albanese
Passeggiando per le strade spagnole, potreste imbattervi in un piccolo stemma impresso sui marciapiedi, sulla facciata di qualche antico palazzo e sulla bandiera ufficiale. È lo stemma della Spagna, nel quale troviamo, aggiunte solo a partire dal regno di Carlo V, due colonne circondate da un nastro che recita il motto dell’imperatore: “Plus ultra” – in riferimento al suo impero, su cui non tramontava mai il sole e che dunque superava ogni limite possibile. Si tratta delle colonne d’Ercole, quelle stesse colonne cui fa riferimento il Sommo Poeta nel canto di Ulisse. Esse secondo la leggenda rappresentano i confini del mondo, che non potevano essere oltrepassati da nessun mortale; ma Dante estende il loro significato in riferimento al folle volo di Ulisse, ad indicare la superba volontà di superare l’estremo limite umano della conoscenza.
Immagino vi starete chiedendo: ma non doveva essere una rubrica filosofica? Cosa c’entrano Ulisse e Dante?
Eppure non c’è da meravigliarsi se chi scrive fa riferimento a personaggi della letteratura: la filosofia infatti non è appannaggio esclusivo di una ristretta e talvolta sprezzante élite di intellettuali, che si dilettano in astruse speculazioni lontane dalla vita di tutti i giorni. Al contrario, l’atteggiamento filosofico nasce con l’uomo, e le riflessioni che ne conseguono impregnano tutto il nostro vivere, talvolta anche senza rendercene conto. E proprio la letteratura è grande alleata della filosofia, in quanto capace di custodire pensieri e interrogativi esistenziali, e di raggiungere un maggior numero di persone nella loro quotidianità – diciamocelo: è molto più probabile trovare un Dostoevskij o un Camus a farci compagnia sul comodino, piuttosto che un’opera di Hegel.
D’altra parte, la stessa filosofia ha un aspetto narrativo: nasce infatti dai miti con cui le civiltà arcaiche spiegavano i misteri del cosmo. Veicolando la visione filosofica dell’autore, la letteratura in ogni sua forma diviene un mezzo con cui la filosofia consegna le domande di senso che mettono alla prova l’umanità al lettore, affinché questi, alla luce del proprio vissuto, possa elaborare una risposta personale.
Tra le tante figure letterarie che rappresentano una visione del mondo e ci sottopongono dilemmi, il sopraccitato re di Itaca nelle caratterizzazioni ambivalenti che emergono dall’Odissea e dalle reinterpretazioni della letteratura successiva, incarna una tensione contrastante che contraddistingue la figura del filosofo: l’aspirazione alla somma conoscenza della verità, e la consapevolezza dei limiti della ragione umana. Se dinanzi a Dante Ulisse riporta la celebre “orazion picciola” con cui persuade i compagni a compiere un viaggio oltre i limiti umani per divenire esperti del mondo, dei vizi e delle virtù, nella sua prima apparizione nell’Odissea è un uomo in lacrime, nostalgico stremato dal lungo peregrinare e consapevole dei propri limiti: raffigurato nel suo lato più umano, appare perduto, e il suo ingegno non sembra sufficiente a ricondurlo in patria. Dante interpreta Ulisse come un uomo ambizioso e devoto alla ricerca della verità, e che – come già Platone e Aristotele – individua nell’uso della ragione e nel sapere il fine e dovere dell’uomo – Kant dirà che la natura sembra desiderare che l’uomo si conquisti col proprio lavoro la più grande abilità, ovvero l’interiore perfezione del pensiero.
Umberto Saba, nella sua poesia Ulisse, riprende l’immagine dantesca dell’eroe-filosofo che preferisce il folle volo verso la conoscenza ad una tranquilla vecchiaia ad Itaca, identificandosi con quell’uomo inquieto il cui regno è la terra di nessuno: «il porto accende ad altri i suoi lumi; me al largo sospinge ancora il non domato spirito, e della vita il doloroso amore». Saba fa riferimento ad uno spirito non pago di ciò che ha acquisito. Il faro infatti – simbolo di sicurezza, di casa, di strada conosciuta – fa luce a quanti non sono spinti da spirito filosofico a ricercare oltre, ad allontanarsi dalle infeconde certezze andando verso il largo ignoto, terra di nessuno. Saba al contrario si identifica con un Ulisse filosofo che ardisce di superare i propri limiti, agognando l’avventura e la conoscenza e abbandonando certezze e sicurezze del proprio porto.
Pascoli infine, ne L’ultimo viaggio immagina un Ulisse che insoddisfatto della propria vita dopo il ritorno a Itaca, riprende il mare per l’ultima volta, decidendo stavolta di fermarsi ad interrogare le sirene. Nel precedente viaggio infatti Ulisse aveva scoperto molte cose del mondo; ma la domanda fondamentale – chi sono? – era rimasta senza risposta. L’eroe era rimasto un enigma a se stesso. Tornato dalle sirene, le supplica di fornirgli questa sola risposta, l’unica verità che conta conoscere, prima che giunga l’ora della morte.
Ulisse è trascinato da una corrente marina, allusione all’attrazione irresistibile che la ricerca della verità esercita sull’anima umana, ma anche al tempo che inesorabile scorre, sottraendo al filosofo la possibilità di sapere. Le sirene infatti non concedono una seconda possibilità al cercatore: se prima cantavano promettendo conoscenza, ora mute, immobili, si limitano a guardare Ulisse senza fornirgli alcuna risposta alle sue domande esistenziali. Ulisse deve arrendersi all’evidenza che ormai il tempo a disposizione è terminato. Questo secondo viaggio segna così la fine delle sue illusioni: ciò che lo spingeva ad andare per mare, la sete di sapere, si trasforma nella consapevolezza che nessuna conoscenza certa è possibile e sensata, finché resta senza soluzione la domanda sull’identità. Il poema infatti termina con la morte del cercatore, ma le sue domande esistenziali poste alle sirene ancora riecheggiano nel mare, così come nella storia della filosofia, senza una risposta definitiva.