Filosofia oltre i muri
Politica e linguaggio
di Vittorio Scanu
«Il linguaggio politico […] è elaborato per far sembrare vere le menzogne e rispettabile l’omicidio e per dare un sembiante di solidità al vento» G. Orwell, La politica e la lingua inglese. La crudezza delle parole del celebre autore di 1984 sembra dar voce allo scetticismo che oggigiorno imperversa tanto per i bar affollati da qualunquisti quanto per i salotti televisivi frequentati da ‘gente del mestiere’. L’avvento delle piattaforme multimediali interattive non ha di certo favorito i malumori riguardanti la politica e la propria comunicazione: potremmo chiederci, politica e linguaggio restano connessi con l’avvento della connessione?
In tempi recenti molti filosofi del linguaggio si sono interessati all’ambito politico, così come la filosofia politica ha ormai familiarizzato con la questione linguistica: questo connubio oltre ad abitare la ricerca filosofica plasma tutto il panorama conoscitivo e scientifico contemporaneo. Abbiamo così volumi interi scritti per aiutare il politicante di turno a padroneggiare il linguaggio oggi imperante, il linguaggio della rete; altri libelli ancora si scagliano con violenza contro gli abomini della propaganda totalitarista e contro i suoi possibili ritorni di fiamma che oggi devastano la scena politica internazionale; le strutture istituzionali si adoperano nella traduzione dei loro contenuti in un linguaggio che si adatti alle esigenze sempre più ampie ed elementari dell’elettorato; l’elettore si percepisce incastrato, come si usa dire, tra l’incudine (un mondo 2.0 che cambia mode e modalità di comunicazione alla velocità di 1,4 Gbps ) e il martello (una politica che a colpi di mutazioni vuole rendersi quanto più accattivante possibile): l’elettore spossato sembra arrancare con fatica, è sfiduciato perché percepisce il canale comunicativo politico unidirezionalmente, bombardato com’è di richieste da perfetti sconosciuti che cercano di accaparrarsi il suo voto, è stanco perché si sente preso in considerazione solamente nel periodo di campagna elettorale, è disinteressato perché avverte la politica come cosa distante, il suo linguaggio troppo specifico e incomprensibile, i suoi progetti avulsi dalla sua quotidianità.
Politica e linguaggio ci appartengono profondamente – anzi essenzialmente – e poiché sono inscindibilmente legati all’espressione dell’umanità stessa, possiamo di conseguenza affermare che anche tra loro ci sia uno stretto legame: per poterne individuare la funzionalità e le potenzialità reali è necessario analizzare linguaggio e politica secondo tre categorie che fungono da ‘diagnosi’ di sicurezza ed efficienza del sistema (questo metodo può risultare di grande beneficio per poter giudicare con una certa oggettività la legittimità di specifiche strategie propagandistiche di una qualsivoglia fazione politica).
La prima categoria che funge da vaglio è la relazionalità: il linguaggio è contatto, è ponte tra il soggetto parlante e il mondo linguistico, senza di esso sarebbe impossibile anche solo pensare lo svolgimento delle nostre attività quotidiane all’interno del contesto sempre già sociale nel quale siamo irrimediabilmente immersi; la politica è relazione già dalla sua etimologia, ovvero amministrazione dello stato inteso come rapporto tra il singolo e la realtà circostante, rapporto di rapporti.
Quando politica e linguaggio rinunciano alla loro intrinseca relazionalità si originano nel primo caso forme pericolose di egoismo politico, di un utilizzo del potere governativo dispotico e tirannico volto al solo beneficio dei propri tornaconti mentre dalla parte del cittadino un certo autismo sociale lo induce a eliminare la sfera pubblica trattandola con indifferenza, impedendo una comunicazione dei malumori privati e dunque una diagnosi sociale che possa tentare di mettere mano a determinate problematiche, nel secondo caso l’isolamento autoreferenziale del linguaggio decreta l’inutilità di tutto il sistema linguistico, incapace di coerenza e di qualsivoglia utilizzo, come per un cucchiaio forato.
La relazionalità dunque rappresenta una necessità imprescindibile legata all’esistenza stessa di politica e linguaggio, una relazionalità talmente radicata da poter permettere un confronto che sembra assumere le sfumature di un’uguaglianza: la relazioni che la politica instaura sono linguistiche e la relazionalità linguistica tra uomo e mondo apre a un panorama politico.
La comunicabilità nel linguaggio è una finalità diretta considerato il presupposto della relazione: lo scambio di contenuti è fine e cominciamento della viva relazionalità di un linguaggio attivo. Condizioni quali la veridicità, la comprensibilità, la giustezza e la verità garantiscono un’intesa (per lo meno secondo quanto afferma Jürgen Habermas nel suo Teoria dell’agire comunicativo) tra i cittadini interlocutori evitando le aberrazioni di un linguaggio politico che viene reso incapace di comunicare dalla propaganda – un celebre caso letterario è proprio il Newspeak del sopracitato romanzo 1984, mentre se volessimo proporre un esempio storico porteremmo senza dubbio quello nazista con la sua retorica trionfalista pomposa e teatrale, diretta eppure vaga, una retorica da slogan che deresponsabilizza il singolo cittadino e pone in un mondo già pre-masticato e pre-interpretato in cui l’unico spazio di azione risiede nell’obbedienza –. Le devastanti conseguenze dell’alteramento degli equilibri della comunicazione linguistica in ambito politico rappresentano una valida controprova per poter affermare l’importanza di un contatto controllato e attendibile nella comunicabilità di politica e linguaggio.
Non bastano relazione e comunicazione – ovvero la fibra relazionale del linguaggio politico e il suo riempimento conoscitivo – per garantire una società equa che prenda in considerazione ogni ambito umano: relazionalità e comunicatività implicano un inevitabile risvolto etico, implicano cioè la responsabilità.
La responsabilità è ciò che lega relazione e comunicazione, poiché la comunicazione è efficace solo se nella relazione c’è una sintonizzazione, un uscire da sé stessi (evitare l’isolamento autoreferenziale) per entrare nell’ottica dell’altro: questo salto operato dalla libertà ci permette di passare da una responsabilità di (auto-riferita e legalista) a una responsabilità per (altruista ed esistenziale). Riportare dunque il discorso della responsabilità al centro del sistema linguistico (già inteso nelle categorie di comunicazione e relazione) nel mondo contemporaneo è a ben riflettere di centrale importanza: sempre più le possibilità che la rete offre di entrare in contatto senza un diretto coinvolgimento relazionale (distanza fisica, identità anonima, diffusione incontrollata etc.) sembrano aumentare un fenomeno di deresponsabilizzazione dell’individuo che contribuisce in maniera prevalentemente passiva alla visione e ulteriore condivisione di un’aggressione intenzionale compiuta contro una vittima da parte di un individuo o un gruppo di individui (si pensi al fenomeno del cyberbullismo o agli innumerevoli ‘leoni da tastiera’). Ricollegare dunque la responsabilità al linguaggio e alla politica non solo permette alle due categorie precedentemente prese in causa di fondare una complessità del tessuto umano (per l’appunto relazionale e comunicativo) aprendo al piano etico ma attraverso il suo particolare contributo illumina come politica e linguaggio interpellino l’uomo in maniera profonda e personale, chiamandolo ovvero facendogli intuire la sua vocazione, responsabilizzandolo alla sua propria umanità che è sociale e linguistica: l’orizzonte della responsabilità politica e linguistica dunque si deve estendere di pari passo con quello della relazionalità e della comunicatività però non diluendosi lungo una serie sempre più lunga di relazioni virtuali ma anzi acuendosi e pervadendo ogni rapporto, sia reale sia virtuale.
Oggi, mentre la nostra relazionalità e la nostra comunicatività sperimentano possibilità portentose, la nostra responsabilità chiama noi uomini tecnologici, noi utenti dei social a garantire per la nostra vocazione, per accettare liberamente ogni giorno l’onere e l’onore di essere ontologicamente, gnoseologicamente, eticamente linguistici e politici: in una sola parola, umani.