“Ich bin ein berliner”, il presidente John F. Kennedy contro i comunisti
«Mr. President, I think you went too far», signor presidente, penso che lei si sia spinto troppo lontano, disse preoccupato McGeorge Bundy, il consigliere per la Sicurezza nazionale, a John F. Kennedy, che aveva appena pronunciato quello che sarebbe diventato il suo discorso più celebre. Era la mattina del 26 giugno 1963. Sulla Rudolph Wilde Platz, davanti al Municipio di Schöneberg, dov’era ospitato il Senato di Berlino Ovest ai tempi del Muro, cinquecentomila persone non smettevano di scandire il suo nome. A mandarle in delirio erano state soprattutto quattro parole, pronunciate in tedesco con l’accento di Boston: «Ich bin ein Berliner», io sono un berlinese . Non soltanto un capolavoro retorico, che avrebbe cambiato per sempre il vocabolario della solidarietà a un popolo sotto minaccia. Ma anche una promessa d’impegno dagli effetti psicologici dirompenti su una città di fatto ostaggio del totalitarismo comunista: lui, il giovane leader del mondo libero, assicurava i berlinesi che non erano soli sulla frontiera più avanzata della Guerra Fredda. Aveva trent’anni allora, Otto Schily, futuro ministro socialdemocratico dell’Interno, che quel giorno per vedere e ascoltare il presidente americano si arrampicò su un lampione: «Kennedy era per noi la speranza, incarnava tutte le cose che ci affascinavano dell’America, suscitava in noi le stesse emozioni che avevamo provato per James Dean. Ma la costruzione del Muro aveva provocato delusione e rabbia verso l’Occidente, che sembrava abbandonarci. Da quel balcone, parlò alla nostra anima ferita. Ci disse che era uno di noi». Sono passati sessant’anni. E la nuova Berlino, capitale di una Germania riunificata, ricorda con gratitudine e un velo di nostalgia quel «momento fatale» della sua vicenda. Oggi pomeriggio, sulla stessa piazza dove parlò Kennedy, una grande festa popolare celebra l’anniversario del discorso, che coincide con i 75 anni dell’inizio della Luftbrücke, il ponte aereo organizzato dagli americani che dal giugno 1948 al settembre 1949, salvò Berlino dal blocco imposto da Stalin, rifornendola di tutto, dal carbone alle patate, dalle medicine alla farina. Per la prima volta, i berlinesi rivivranno l’emozione di quei 9 minuti che cambiarono la loro storia: il filmato del discorso sarà proiettato su un grande schermo montato sul balcone del Rathaus. Ma cosa preoccupava, in quel momento di gloria, il consigliere di Kennedy? Perché l’allora borgomastro di Berlino, Willy Brandt, sul palco accanto al presidente, lo aveva ascoltato con volto di pietra? In realtà gli speechwriter della Casa Bianca gli avevano preparato un altro discorso. Nell’idea originaria, Kennedy doveva rivolgersi direttamente alle popolazioni europee, per creare consenso intorno ai negoziati con Krusciov sulla non proliferazione nucleare, evitando inutili provocazioni nei confronti del Cremlino. Ma l’abbraccio contagioso e l’accoglienza entusiasta nelle strade della città, lo convinsero a non rispettare il copione preparato dalla diplomazia. «Sentì di dover qualcosa ai berlinesi», ha scritto lo storico Andreas Daum nel suo libro, Kennedy in Berlin. Così parlò a braccio, puntando l’indice contro il mondo sovietico, denunciando il Muro come prova fisica del suo fallimento e ripetendo come un mantra a chiunque avesse ancora dei dubbi sulla vera natura del comunismo, l’invito: «Che vengano a Berlino». Ecco perché McGeorge Bundy era turbato e tanto più lo era Brandt, futuro ministro degli Esteri e poi cancelliere, il quale aveva già in programma un discorso che col senno di poi sarebbe stato considerato il primo mattone della sua Ostpolitik. In realtà, poche ore dopo il trionfo in piazza, Kennedy confermò la sua «strategia della pace» alla Freie Universität, in un intervento molto più misurato e tutto improntato al dialogo nella fermezza con l’Urss. Ma la Storia non lo ha mai registrato. A rimanere scolpita è la celebre frase, che fu un’idea dello stesso Kennedy, ispiratagli dal latino. La pronunciò due volte. In un primo passaggio: «Duemila anni fa l’espressione più celebre era civis romanis sum, oggi, nel mondo libero è Ich bin ein Berliner». E poi in quello conclusivo, che mandò in visibilio mezzo milione di persone: «Tutti gli uomini liberi, ovunque essi vivano, sono cittadini di Berlino. Ed è per questo, da uomo libero, che sono orgoglioso di dire: Ich bin ein Berliner». A tradurre la frase inglese «I am a citizen of Berlin», su richiesta del presidente, fu Robert Lochner, l’interprete ufficiale della visita, che la scrisse su un foglietto e mi ha raccontato che Kennedy la ripeté molte volte a voce alta, perché teneva molto a pronunciarla correttamente. Lochner difende la correttezza grammaticale della traduzione, contro coloro che storcono il naso, sostenendo che quella corretta doveva essere «Ich bin Berliner», non volendo il verbo sein, essere, alcun articolo nella lingua di Goethe se seguito da sostantivo. Obiezione da sempre mista a ironia, visto che ein Berliner, nella capitale tedesca è anche un bombolone ripieno di marmellata. Ma quel giorno, davanti al Municipio di Schöneberg, i berlinesi capirono tutti. «Non vivremo mai più una giornata come questa», disse Kennedy a Teddy Sorensen, il più fidato dei suoi consiglieri, sull’aereo che li portava in Irlanda. Parole tristemente profetiche. Soltanto pochi mesi lo separavano dalla tragedia di Dallas. corriere.it