Je suis Craxi. Quindici anni fa moriva lo statista socialista
‹‹La mia libertà equivale alla mia vita››, in questa frase si riassume Benedetto (Bettino) Craxi. L’anniversario della sua scomparsa suscita a distanza di quindici anni forti emozioni tra coloro che vissero gli anni mirabili del Partito socialista italiano. I più giovani vagamente lo ricordano, hanno studiato la sua formazione politica, la sua ascesa al potere e il suo tragico epilogo sui libri di scuola malgrado ciò, intelligentemente riflettono su quanto accaduto nei primi anni Novanta e cominciano oggi ad apprezzare la figura politica e carismatica di Craxi.
Fu il primo socialista a ricoprire l’incarico di presidente del consiglio dei ministri e sin da ragazzo mostrò particolare attaccamento alla causa socialista e ai valori nazionali. Dedicò la sua vita alla politica e al suo Paese che sempre ha amato.
Fu il primo socialista ad esaltare la personalità individuale e il pluralismo economico, politico, religioso e a prendere le distanze da logiche di totale statalizzazione. Craxi preferì Proudhon a Lenin e a Marx e fece tesoro della importante linea di demarcazione che il filosofo francese tracciò tra società socialista e società comunista. Craxi infatti evidenziò quanto un Paese non debba subire l’accentramento del potere, la distruzione sistematica di ogni pensiero individuale, un apparato di polizia inquisitoriale, la statizzazione integrale dei mezzi di produzione, la soppressione del mercato, l’abolizione della libertà d’iniziativa economica. Caratteristiche, queste, tipiche della società comunista e collettivista.
In sedici anni Bokassa, questo il nomignolo con cui lo chiamavano dentro e fuori dal partito, è passato dagli altari alla polvere. Governò l’Italia dal 1983 al 1986, (è stato l’esecutivo più longevo della storia repubblicana prima della discesa in campo di Silvio Berlsuconi) e il suo imperativo categorico fu modernizzare. Intervenne immediatamente riducendo il tasso d’inflazione arrivato ormai alle stelle, restituendo competitività alle imprese e investendo nel sociale e nella ricerca. Firmò, malgrado laico, il nuovo concordato tra Italia e Vaticano, si affermò in ambito internazionale rivolgendo particolare attenzione alla cooperazione tra popoli. Non si piegò agli Stati Uniti durante la crisi di Sigonella e mostrò di essere contrario in ogni occasione al regime sovietico. Sostituì infine falce e martello, simbolo sanguinario, con il garofano rosso. Per tutto questo oggi è considerato da destra a sinistra uno statista. Un uomo politico del suo calibro difficilmente sarebbe stato sconfitto sul campo, regolarmente e democraticamente, visto che il Psi conobbe proprio in quegli anni il massimo splendore in termini di consensi. Soltanto un’azione politicogiudiziaria avrebbe potuto destabilizzare gli equilibri e quindi avrebbe potuto annientare la figura di Craxi.
Il 17 febbraio 1992 si aprì l’inchiesta “Mani pulite” con l’arresto dell’ingegnere Mario Chiesa, socialista milanese, che Craxi successivamente definì un mariuolo. ‹‹Mi preoccupo di creare le condizioni – affermò Craxi – perché il Paese abbia un governo che affronti gli anni difficili che abbiamo davanti e mi trovo davanti un mariuolo che getta un’ ombra su tutta l’ immagine di un partito che a Milano in cinquant’ anni, non in cinque, ma in cinquanta, non ha mai avuto un amministratore condannato per reati gravi commessi contro la pubblica amministrazione››.
Il leader socialista inizialmente tentò di minimizzare l’accaduto ma i magistrati avevano un preciso disegno in mente e cominciarono a piovere avvisi di garanzia in tutta la Lombardia, in seguito in tutta la Penisola. I partiti principalmente colpiti furono il Psi e la Dc. Un’azione giudiziaria sconvolse lo scenario partitico che aveva consegnato all’Italia la democrazia e una costituzione. Sembrava davvero che nel nostro Paese non esistesse più la separazione dei poteri e che lo stato di diritto fosse venuto meno. Si creò un clima di terrore e di giustizialismo. Il numero dei suicidi dall’apertura dell’inchiesta fino al 1998 è emblematico: quarantacinque. Quello dell’on. Sergio Moroni, oggi quasi dimenticato, preceduto da una lettera scritta dallo stesso esponente socialista, indirizzata al presidente della Repubblica, che conclude ‹‹Mi auguro solo che questo possa contribuire a una riflessione più seria e giusta, a scelte e decisioni di una democrazia matura che deve tutelarsi. Mi auguro soprattutto che possa servire ad evitare che altri nelle mie stesse condizioni abbiano a patire le sofferenze morali che ho vissuto in queste settimane, ad evitare processi sommari (in piazza o in televisione) che trasformano un’informazione di garanzia in una preventiva sentenza di condanna›› è tra i più eclatanti. Nell’epistola è descritta perfettamente l’aria che si respirava in quei giorni e che alcuni rappresentanti di partito, un tempo magistrati, vorrebbero che si respirasse tuttora. Dei tre partiti di massa che contribuirono alla realizzazione dell’Italia repubblicana, rimase in piedi soltanto il Pci, trasformatosi prima in Pds poi in Ds. La caduta del Muro di Berlino obbligò l’allora segretario nazionale Achille Occhetto a invertire rotta, a sganciarsi dal blocco sovietico e a democratizzare il nome del partito. La storia aveva punito e condannato il comunismo e con esso tutti i partiti comunisti.
Bettino Craxi ricevette il primo avviso di garanzia il 15 Dicembre 1992. Il 3 Luglio dello stesso anno il leader socialista denunciò nell’aula di Montecitorio l’irregolarità e l’illegalità di buona parte del finanziamento politico. Proseguì invitando i presenti in aula ad alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario alle sue dichiarazioni. Nessuno si alzò. In seguito subì il lancio vergognoso di monete e le grida spagnolesche all’uscita dell’Hotel Raphaël a Roma. Episodi tipici di paesi incivili. Era il 29 Aprile 1993, il parlamento aveva negato l’autorizzazione a procedere nei suoi confronti. In quegli anni alcuni pagarono tragicamente e altri giocarono a fare gli eroi. Nel 1994 il capro espiatorio Craxi si ritirò in Tunisia. Evitò di sottoporsi a processo. Preferì morire ed essere sepolto lontano dal suo Paese piuttosto che essere condannato ingiustamente rispetto all’intero sistema politico e partitico. Addirittura, in occasione della sua morte l’allora presidente del consiglio Massimo D’Alema, ex Pci, propose alla famiglia i funerali di stato. I familiari ovviamente rifiutarono. A distanza di quindici anni dalla sua scomparsa numerose amministrazioni da destra a sinistra stanno lavorando per intitolare allo statista una via o una piazza e moltissimi lo piangono sulla tomba.