La casa del diavolo, i misteri di Palazzo Acerbi tra terrore e superstizione 

Sui cinquant’anni, la barba lunga e quadrata, gli occhi infuocati come la «bragia» (brace: Dante definiva nello stesso modo quelli di Caronte) e il ghigno satanico. Per i milanesi questo gentiluomo era il demonio in persona. Dove risiedeva? In un’aristocratica dimora al numero 3 di corso di Porta Romana: Palazzo Acerbi, conosciuto ancor oggi come la «casa del diavolo». «La leggenda si intreccia con la storia — rivela la storica dell’arte, Attilia Lanza, autrice di “Milano, andar per cortili”, scritto con Marilea Somarè (Meravigli edizioni) —. Durante la peste, descritta da Alessandro Manzoni ne “I Promessi Sposi”, lì abitava Ludovico Acerbi, eccentrico personaggio che, nonostante infuriasse il contagio, dava ogni sera splendide feste nel suo salone da ballo, fatto da lui sontuosamente decorare a fresco proprio nel 1630, all’inizio dell’epidemia. Le cronache del tempo, infarcite di sinistre fantasie dettate dal terrore e dalla superstizione, raccontavano che nel palazzo vivesse proprio satana».

Il signore dei demoni in centro a Milano? «Acerbi usciva tutti i giorni alla stessa ora — risponde la storica —, puntuale, quando la sera si confondeva con il tramonto, con una carrozza tirata da sei cavalli neri pomposamente scortato da sedici staffieri sbarbati e in livrea verde dorata. Né giovane né vecchio, né magro né grasso, né bianco né nero. Era superbissimo e ostentava i suoi gioielli. Acerbi, data la sua origine ferrarese, doveva essere un gran buontempone: forse in un’arrogante e paradossale sfida all’ira divina, gli piaceva scorrazzare e curiosare per la città devastata, mantenendo, al sicuro nella sua elegante carrozza, le opportune distanze». Non c’è da meravigliarsi, quindi, che «in quegli anni tenebrosi, il povero popolo meneghino vedesse nel gentiluomo festaiolo e spavaldo l’incarnazione del demonio», afferma Lanza.

Il diavolo arrivò a Milano nel 1615 per incarico del governo spagnolo. Ricchissimo, si rese subito inviso alla città facendo di tutto per ostentare sfarzo in un momento di profonda crisi. Acquistò da Pietro Maria Rossi, conte di San Secondo, il palazzo in corso di Porta Romana. «Lo fece restaurare in stile barocchetto lombardo che conserva oggi nella facciata con mascherine leonine ornamentali e balconcini in ferro (aggiunti, però, nel Settecento) — rivela la scrittrice —. All’interno, due corti porticate su colonne (la seconda in rococò con statue e rampicanti), il fronte su tre piani, ampi saloni in marmo con sculture, quadri di gran pregio, stucchi, specchi e tappezzeria di seta. Un vasto e luminoso scalone a tre rampe che conduceva all’appartamento padronale, l’unico ad aver mantenuto le decorazioni originarie. Infine, il giardino fu arricchito con piante esotiche e fontane. All’epoca era importante avere un palazzo in quella strada prestigiosa perché portava a Roma». 

Dell’edificio originario (oggi occupato da uffici) restano soltanto il cancello in ferro battuto, il cortile con i portici a colonna, lo scalone con gli angeli di bronzo e le pitture ornate da stucchi sui muri e sul soffitto del salone dei festeggiamenti. Secondo un anonimo cronista di quegli anni nessuno osava pronunciare il suo nome. La sua cattiva fama iniziò con la peste: si rifiutò di lasciare Milano e prese l’abitudine di dare ricevimenti sontuosissimi. Morti ovunque che finivano nel «foppone» (fossa comune fuori le mura), carestia, miseria. I nobili fuggivano verso la campagna. Acerbi no. Resisteva e continuava a organizzare feste. La sua risata risuonava nel corso reso deserto dalla morte. La gente stremata passava sotto al palazzo e sentiva la musica, le grida e poi lo vedeva uscire la sera o affacciarsi alla sesta finestra del primo piano. E non c’erano appestati tra i suoi ospiti. Si diceva che rendesse immune dal morbo chiunque gli stesse accanto. Conduceva una vita dissipata e sopravviveva a tutto, anche alla vecchiaia. I milanesi non avevano dubbi: era il Diavolo di Porta Romana. corriere.it