La fotografia e il tempo. Spettri digitali
di Lucia De Carolis
La fotografia è il punto di arrivo della nostra millenaria tradizione raffigurativa. Possiamo considerarla dal punto di vista artistico e scopriamo persone che fanno di questo artefatto una vera e propria opera d’arte.
Ciò che qui ci interessa è prendere in esame la fotografia dal punto di vista dell’identità diacronica, e scopriamo che ci riporta sia al riconoscimento di noi stessi nell’inesorabile fluire del tempo, sia, quindi, alla finitezza della nostra condizione. Osservare una nostra fotografia scattata nel passato ci dà la misura del cambiamento personale, pur riconoscendo noi stessi anche se con indosso una paio di pantaloncini corti e i calzettoni scesi alle caviglie. Quel che si presenta, direi in “carne ed ossa”, è il tempo, nella sua declinazione al passato, vissuto nel presente, con una chiara anticipazione del futuro, suggerendo la finitezza della nostra personale condizione: un attimo dopo lo scatto non è già più presente, quel momento va a colorare un altro punto nel dipinto della nostra storia.
«Le fotografie proclamano l’innocenza e la vulnerabilità di vite che si avviano alla distruzione e questo legame tra fotografia e morte permea tutti i ritratti fotografici», suggerisce Susan Sontag.
Questa funzione, a ben vedere, è altresì esplicitata nel linguaggio comune quando, nell’utilizzare il termine “immortalare”, vi è un chiaro rimando all’intenzione di trattenere quell’istante per sempre. Con l’ausilio di un artefatto: la fotografia.
Nel corso del Novecento, a seguire questo ragionamento, le fotografie hanno conquistato un posto d’onore sulle lapidi dei cimiteri cattolici, con il compito di creare «l’inventario della mortalità». Non più una mano che dipinge la silhouette del defunto, con un semplice movimento del dito sulla macchina fotografica, vengono impresse e immortalate sulla pellicola la persona, lo spazio che occupa e il tempo che egli vive. Esperendo. Quella persona, in quello stato specifico, muore nell’istante dopo essere stata fotografata: il divenire di Eraclito, sintetizzato dalla tradizione filosofica col termine panta rhei.
Ci ricorda Davide Sisto che «[persone e cose] sono irrefutabilmente lì in quel determinato istante, a un’età specifica della loro vita e messe insieme spesso per puro caso. Nell’istante successivo si disperdono e mai più si incontreranno o torneranno nel medesimo luogo. Muoiono nell’attimo in cui vengono fotografate. L’istante immortalato contiene in sé le assenze del prima e del dopo, il vuoto che il tempo trascorso pone tra la presenza e l’assenza di chi non c’è più, le causalità della specifica situazione, la nostalgia legata al peso del passato».
Varcare le mura di un cimitero, specie se di campagna, è un’esperienza di vita, perché entriamo con “anima e corpo” in contatto col Volto, seppure attraverso una fotografia: quel volto seguita, in un certo senso, a chiedere ai propri cari di prendersi ancora cura di lui, preservandolo nella memoria; il Volto descritto da Lévinas ci interpella anche dopo la morte della persona, per mezzo della fotografia apposta sulla lapide chiede di non morire una seconda volta. Passeggiando tra i vicoli dei cimiteri si collocano quei visi nel loro tempo e si immaginano le loro storie, aiutati dagli abiti che indossano, dalle capigliature, dagli oggetti che li circondano. Le lapidi più antiche esibiscono le foto più sbiadite e spesso son dimenticate; non più fiori, non più preghiere. In tutti i cimiteri c’è qualche volto dimenticato, senza più una storia che lo racconti.
«La fotografia – continua D. Sisto – ha il compito di appropriarsi dell’esistenza – perduta – del defunto, unendo assieme la necessità del corpo di trasformarsi in un’immagine fissa e il bisogno dell’immagine di incarnarsi in qualcosa. Dunque, la fotografia ci permette di mentire a noi stessi, celebrando un processo simbolico di imbalsamazione che tiene lontani gli effetti biologici della morte» e dell’invecchiamento, coi vari filtri messi dalla tecnica a disposizione.
La fotografia si incarna in qualcosa, noi, coi nostri passi incarnati, segniamo i vicoli dei cimiteri, andiamo a “far visita” ai nostri morti, rendiamo loro omaggio, e ricordiamo, attraverso le fotografie, un momento della loro vita o immaginiamo altre vite di cui non abbiamo il ricordo. I nostri gesti, camminare osservare sentire toccare odorare baciare, dicono della nostra corporeità, pienamente presente nel processo cognitivo di memorizzazione e immaginazione.
L’era digitale sta inaugurando un progressivo avviarsi verso la dissoluzione del corpo, ben esplicitati nei meccanismi di cognizione e rielaborazione del lutto, non più strettamente legati al sepolcro e alla sepoltura; la morte sembra aver raggiunto la sua destinazione sul web. Stanno nascendo in Giappone i primi cimiteri hi-tech e alcuni riti funebri sono celebrati da preti-robot, tutto rigorosamente gettato in rete. Assistiamo ad un ritorno trionfante della morte nel web, tanto da far nascere nuovi mestieri, riassunti nella dicitura Digital Deth Manager. Gli operatori hanno il compito di “ripulire” i profili. L’idea a sostenere l’impiego sta nella visione del social come il principale motore che possa perpetuare la memoria di se stessi, o del caro estinto, nella “città dei vivi”, dove anche le case non sono più, ma in tutte le dimore si ha un accesso virtuale. «All’interno di questa abitazione virtuale ogni utente, narratore e narrato, si presenta inevitabilmente come “disincarnato”: la fisicità e l’immediatezza del corpo reale – osserva Giuseppe Riva – vengono sostituite da un corpo digitale, composto da una pluralità di immagini parziali e contestualizzate». Ne deriva la trasformazione del soggetto in carne e ossa nel messaggio stesso che egli comunica e veicola verso altri, dal momento che è impossibile usare il corpo per rendere comprensibili le proprie emozioni all’interlocutore di turno.
Capita così che accedendo alla piattaforma Facebook, questa ti ricordi il compleanno di un tuo amico che “è tornato al Padre”, avremmo detto fino a qualche tempo fa, mentre ora continua a farsi presente in questo spazio non fisico che accomuna viventi e deceduti, annullandone la distanza, rendendo chi resta un pò meno umano, sia per i contenuti condivisi, «l’esposizione quotidiana della propria intimità e la confusione costante tra pubblico e privato si traducono spesso in un’assenza di distanza e in una contemporanea forma di recitazione, le quali, riducono ogni utente Facebook a una mera immagine di sé. Le conseguenze sono la perdita del controllo razionale delle proprie condivisioni e la difficoltà a distinguere se stessi dalla copia virtuale, rimanendo in balia di quello spazio onirico dell’era digitale[…]», sia per vitalità, dal momento che tutte le nostre attività fisiche sono presenti nella forma di immagini fotografiche, dunque, a seguire il pensiero della Sontag, già passate. Come le foto dei morti. Buona serata, dal mio spettro digitale!