L’Airone è ancora solo al comando, i 100 anni di Fausto Coppi
Il giorno che venne al mondo era un lunedì, proprio un secolo fa, il 15 settembre 1919, e quella coincidenza conteneva in sé una speranza: nascere all’inizio della settimana è un auspicio, una promessa di futuro. All’anagrafe fu battezzato Angelo Fausto Coppi, ma per tutti, ben presto, fu sempre e solo “Fausto”. Sulle pagine del Corriere della Sera, in un trafiletto un po’ nascosto, i lettori furono messi di fronte ai numeri di una tragedia: erano stati contati i morti milanesi della Prima Guerra Mondiale, 8.482. E, se si considera che quelli erano soltanto i dati relativi a Milano, si può affermare che tutte le famiglie, a quel tempo, convivevano con il dolore. Poco importa che la battaglia finale fosse stata vinta, che a Vittorio Veneto si riscattò la disfatta di Caporetto: ciò che restava erano strade distrutte dalle bombe e dalle cannonate, un Paese ferito, stanco, demoralizzato. E in quest’Italia nacque quel bambino che, in seguito, ne sarebbe diventato un simbolo, un’icona, un mito: Fausto Coppi, appunto. Pochi giorni prima il vate Gabriele D’Annunzio aveva conquistato Fiume e ne aveva proclamato l’annessione alla monarchia italiana, mentre Benito Mussolini organizzava i suoi Fasci di Combattimento.
Figlio, dunque, dell’Italia dannunziana e pre-fascista, lui che fu l’esatto contrario della pomposa retorica sbandierata dal Vate e da Mussolini e, anzi, rappresentò la faccia timida, introversa, persino triste del Paese, con quegli occhi sgranati, il naso lungo e lo sguardo che sembrava sempre alla ricerca di una felicità impossibile. Attraversò l’epoca della camicie nere senza farsene coinvolgere: andò a bottega da un salumiere, guadagnò i primi soldi e, grazie a un regalo dello zio, riuscì a comprarsi una bicicletta e a partecipare alla prime gare nei dintorni di Novi Ligure. Pedalava forte, e di quella tenacia e di quello stile rimase impressionato Biagio Cavanna, sotto le cui mani possenti erano passati i muscoli di Costante Girardengo, il primo campionissimo del ciclismo. I successi, nelle gare giovanili, si susseguirono, mentre l’Italia mostrava al mondo la sua potenza e si trasformava in un impero, con il Duce che dal balcone di Palazzo Venezia addormentava il popolo diventato gregge. Gl’italiani si godevano le imprese di Nuvolari e Carnera, palpitavano per Binda e per Guerra, e s’inginocchiavano di fronte al talento di Peppìn Meazza che aveva guidato la Nazionale di calcio a conquistare il campionato del mondo. Erano gli Anni Trenta, quelli della Grande Illusione. Fausto Coppi, intanto, continuava a pedalare e a inseguire il suo sogno: diventare un campione. Il giorno decisivo fu un mercoledì, il 29 maggio 1940. Coppi, che correva da gregario per la Legnano di cui era capitano Gino Bartali, scappò dal gruppo sulle salite tra Firenze e Modena e nessuno riuscì a prenderlo. Era la sua cavalcata verso la felicità. Il 9 giugno, a Milano, fu incoronato re del Giro d’Italia, lui che vi partecipava per la prima volta, e a tutti parve che fosse nato un eroe omerico. Il giorno dopo la vittoria rosa, Mussolini annunciò che era arrivata l’ora delle decisioni irrevocabili, e l’Italia si trovò catapultata in guerra. Coppi continuò a correre, ma nell’autunno del 1942 anche a lui toccò partire per l’Africa dove fu catturato dagli inglesi e restò prigioniero fino al termine del conflitto. Smagrito, senza un soldo, stanco, attraversò l’Italia per tornare a casa e costruirsi una nuova esistenza. Ovviamente in sella a una bicicletta. E, vittoria dopo vittoria, Fausto Coppi si riprese ciò che la guerra gli aveva portato via: la gloria.
Divennero leggendari i suoi duelli con Gino Bartali, l’Italia si divise in due (tanto per cambiare), non erano bastati fascisti e antifascisti, adesso c’erano pure i coppiani e i bartaliani. In Fausto, più giovane del rivale, il popolo vedeva l’eroe che, ferito dalla guerra, era riuscito a sopravvivere e adesso, con tenacia, lottava per guadagnarsi il futuro. Sulla sua bicicletta c’era l’Italia del Dopoguerra che, orgogliosa, si rialzava, costruiva palazzi, sistemava strade, fondava industrie: l’Italia del miracolo economico. Le imprese di Fausto erano le imprese di un intero Paese e, quando lui s’innamorò della Dama Bianca e scoppiò lo scandalo che lo portò addirittura in prigione perché lei era sposata, l’Italia scoprì che si poteva anche dire no alla morale cattolica e condurre un’esistenza laica. Coppi, fino alla morte nel gennaio del 1960, fu per tutto il popolo una specie di guida, forse addirittura un guru. E anche dopo ha continuato, continua e continuerà a essere un’icona, un mito. Valgono, per sempre, le parole del giornalista Mario Ferretti, pronunciate durante la mitica tappa Cuneo-Pinerolo del 1949: “Un uomo solo è al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome è Fausto Coppi”. gazzetta.it