Le Cinque Giornate di Milano, i debiti di Radetzky e la Prima guerra d’indipendenza
Dal 18 al 22 marzo Milano celebra le sue «Cinque Giornate». Ma cosa successe in questi giorni nel 1848? Ecco una spiegazione sintetica.
Fra il 16 e il 17 marzo a Milano si diffuse la notizia dei moti rivoluzionari scoppiati in Francia, Austria, Ungheria, Boemia e Croazia. La città, all’epoca, era sotto dominazione asburgica. Il 18 marzo la popolazione insorse e dopo cinque giornate di violenti combattimenti contro le truppe austriache, comandate dal maresciallo Radetzky, si liberò (temporaneamente) degli occupanti. Nella terza giornata di battaglie il Consiglio di guerra milanese respinse la proposta di armistizio e si costituì in un governo provvisorio. Il giorno successivo, il 21 marzo, i milanesi conquistarono tutte le caserme e le posizioni tenute ancora dagli austriaci; in serata iniziò la ritirata delle truppe di Radetzky, che lasciarono la città. All’alba del 23 marzo, dopo aver aperto le porte, Milano accolse i primi volontari da Genova e Torino.
A quel punto il re di Sardegna Carlo Alberto emanò il proclama in cui annunciava ai popoli della Lombardia e del Veneto che stava accorrendo in sostegno agli insorti. La sfida all’Impero Austro-Ungarico era dichiarata, iniziava la Prima guerra di indipendenza. La «libertà» di Milano, però, durò poco. Il 5 agosto venne firmata la capitolazione e il 6 agosto 1848 gli austriaci erano già rientrati in città. Fu il podestà Paolo Bassi a consegnare a Radetzky le chiavi di Milano. Nello stesso giorno il feldmaresciallo assunse «fino ad ulteriore disposizione il governo militare e civile delle provincie di Lombardia», dichiarò Milano in stato d’assedio e promulgò la legge stataria (che contemplava la pena di morte anche per infrazioni lievi).
Lo stato d’assedio e la concentrazione di tutti i poteri nelle mani dei militari – Radetzky prese inizialmente la sua residenza a Palazzo Reale, accanto al Duomo – mostrarono alla città quale fossero gli obiettivi degli austriaci: venne sciolta la guardia nazionale (l’ordine pubblico sarebbe stato garantito dalle truppe di guarnigione) e il governatore austriaco «vietò gli attruppamenti per le strade e ordinò di astenersi nei luoghi pubblici da discorsi contrari all’ordine delle cose». Lo stato d’assedio strozzò la libertà di stampa e scrittori e tipografi vennero equiparati a «perturbatori della quiete pubblica». Infine, si intimò ai cittadini di consegnare le armi da fuoco, le munizioni e i coltelli (pena: la legge marziale). Nei mesi successivi furono arrestati e fucilati molti «rivoltosi» e altri milanesi vennero sottoposti alla cerimonia della «pubblica bastonatura».
Burbero, bonario, duro, festaiolo, spietato. Come decifrare il Radetzky di cui si celebra in questi giorni la cacciata da Milano dopo le Cinque Giornate e che poi, tornato in città, vi rimase fino alla morte ultranovantenne? Città dove si divise tra due amori inossidabili: Milano appunto e quella Giuditta Meregalli, stiratrice di Sesto San Giovanni dalla quale ebbe quattro figli. Passioni, paure, durezze, vizi del governatore del Lombardo-Veneto sono stati messi in fila e depurati dalle scorie della passione da Giorgio Ferrari nel volume Gli ultimi giorni di Radetzky (Edizioni La Vita Felice) che ripercorre la storia di un militare tanto diverso dall’immaginario: tarchiato, basso di statura, pingue e amante del buon cibo e del buon vino, del gioco, della guerra quanto della bella vita. Un soldato dal genio indiscutibile inebriato di una città che lo affascinava.
«Gli piaceva il Duomo — scrive Ferrari — e la Scala, l’Arco del Cagnola sulla via del Sempione, i confortevoli alberghi cittadini, i caffè». E poi «le venditrici di fragole, i commercianti di uccelli, gli aggiusta ombrelli, i lampionai». Gli piacevano i milanesi semplici ma diffidava dei nobili salottieri nostalgici del vento di libertà e nazionalismo portato da Napoleone. E la Milano dinamica e ricca, prima contribuente alle finanze dell’impero, sopportava questo soldato non disdegnando — al netto di malumori e insofferenze— l’azione in taluni casi meritoria dell’Aquila bicipite. Quel vento di libertà che accese le gloriose Cinque Giornate e che obbligarono Radetzky a fuggire su una carrozza mimetizzata da carro da fieno con la tetra voglia di rivalsa ma pure con un rigurgito di rispetto per la città che lo aveva abbagliato.
Non potendo la sua cavalleria agire nelle strette vie, la strategia imponeva l’uso dei cannoni contro i rivoltosi. Non lo fece: risparmiò macerie e lutti alla città e preparò la riconquista avvenuta con la vittoria sui piemontesi e il ritorno tra la folla disillusa al grido di: hinn stàa i sciuri. Sono stati i signori a organizzare la rivolta. Non bastò. Il feldmaresciallo divenne più repressivo e diffidente avviando con Milano una convivenza fatta di sospetto, stima, oppressione che lo portarono a trascorrere gli ultimi anni nello splendore del Palazzo Reale (occupando solo poche stanze), nell’assiduità con la stiratrice madre dei suoi figli nel focolare di via Borgospesso, nel sospetto — con arresti ed esecuzioni — di nuove rivolte.
Alla sua morte, all’età di 91 anni, i milanesi non lo degnarono di riguardi: deserto il percorso della salma, deserti i posti per autorità in Duomo. «Per molti — scrive Ferrari —, la maggioranza forse, era un vegliardo tollerato ma sostanzialmente poco amato». Da parte sua Radetzky — che vendette in vita la sua salma a Joseph Gottfried Pargfrieder in cambio del pagamento degli ingenti debiti di gioco che da sempre lo assillavano, oltre a quelli della moglie e degli sciagurati figli in patria — lasciò 300 fiorini per i poveri e 200 per le messe in Duomo prima di finire sul colle degli eroi a Klein Wetzdorf, in Austria, come da volontà del nuovo proprietario delle sue spoglie imbalsamate. Così Milano accantonò un grande soldato, un ottimo stratega, un governatore accigliato e duro la cui storia, però non si è mai conclusa. corriere.it
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