Napoli è la capitale della cultura, il dialetto di Geolier racconta l’Italia
di Aldo Cazzullo, Corriere della Sera
Alla fine la vera novità del 2024 è stata l’exploit di Geolier, che è poi la versione aggiornata dell’antico primato artistico di Napoli
Se due persone parlano tra loro in dialetto, è complicità. Ma se uno parla nel proprio dialetto a un altro che non lo capisce, l’altro si sentirà escluso (lo sanno bene i meridionali che negli anni 50 si sono sentiti parlare in dialetto dai torinesi). Un’identità molto forte provoca la reazione delle altre. Questo spiega in parte, anche se ovviamente non giustifica, i fischi di Sanremo alla vittoria di Geolier nella serata delle cover, e la bufera social che l’ha accompagnato in queste sue trionfali serate al Festival.
Tuttavia, la bellezza di essere italiani è essere diversi gli uni dagli altri. Se siamo un Paese unico al mondo, è proprio perché a ogni crinale di collina cambiano il paesaggio, gli accenti, gli stili architettonici, e appunto i dialetti. Il legame che unisce ognuno di noi alla sua piccola patria non ci rende meno italiani, anzi. In questi decenni ci siamo mescolati, e alla fine ci assomigliamo più di quel che pensiamo. E poi suvvia il dialetto napoletano — ma forse dovremmo dire la lingua — non ci è estraneo, fa parte di noi: chi non ha mai cantato, magari stonando, una canzone napoletana?
Napoli ci appartiene e ci riguarda, anche perché è la vera capitale della cultura materiale italiana. All’estero pensano l’Italia come un’immensa Napoli: il sole il mare Pulcinella il Vesuvio la pizza. Noi preferiamo pensare a cose meno oleografiche: il cinema di Totò, il teatro di Eduardo, la musica di Pino Daniele e dei fratelli Bennato. Certo, Totò recitava in italiano. Eduardo infila nelle sue commedie qualche parola in dialetto, ma è attento a farsi capire da tutti (e ora ha trovato un ottimo interprete nel suo ultimo allievo, Vincenzo Salemme). Pino Daniele ha scritto in dialetto la splendida Quanno chiovee ovviamente ’Na tazzulella ‘e cafè e Je so’ pazzo, ma ha cantato soprattutto in italiano. Ovviamente Geolier non è pronto a essere accostato a un gigante come Pino Daniele; ma com’è noto sulle spalle dei giganti siamo seduti immeritatamente un po’ tutti. E se il rap partenopeo può non piacere, rappresenta comunque l’ennesimo segno della vivacità culturale della capitale del Sud.
Del resto, a Sanremo «pulsa il Mezzogiorno», per dirla con Diego Abatantuono, che è nato a Milano ma ha avuto successo inventando una neolingua contaminata con il Sud; come ha fatto agli esordi Luciana Littizzetto, quando inventò il personaggio di «Minchia Sabry», la ragazza nata a Torino che però restava mezza siciliana (se per questo Salvatore Travolta era di Godrano, Palermo; purtroppo suo figlio John non ha dato al festival il meglio di sé). Venerdì sera si è sentito a Sanremo anche il dialetto salentino, mentre Angelina Mango ha giustamente rivendicato le sue origini lucane. È vero che Amadeus è nato a Ravenna e cresciuto a Verona (da padre palermitano però); ma la formazione settentrionale in lui emerge molto meno di quella isolana in Fiorello. Non c’è nulla da fare: non solo se Hemingway fosse nato a Sofia non lo leggerebbe nessuno, ma pure se Camilleri fosse nato a Domodossola o Elena Ferrante a Thiene.
Poi, siccome si è sempre meridionali di qualcuno, ci sono gli italiani di origine araba. Che non sono meno italiani per questo, come ci ha ricordato Ghali. Nell’anno della morte di Cutugno, in pochi avrebbero avuto il coraggio di cantare «sono un italiano vero», una canzone che Toto aveva scritto per Celentano, cui parve troppo nazionalpopolare. Che l’abbia fatto un milanese nato a Baggio da genitori tunisini è un segnale incoraggiante. Anche se il miglior talento della sua generazione si conferma a ogni occasione Mahmood, anzi Alessandro come lo chiama Amadeus, che ha fatto davvero venire i brividi portando la canzone con cui Lucio Dalla esordì come autore di testi, ed ebbe l’effetto di una fucilata: «Siamo noi, siamo in tanti, ci nascondiamo di notte, per paura degli automobilisti, dei linotipisti. Siamo i gatti neri, siamo pessimisti, siamo i cattivi pensieri; e non abbiamo da mangiare. Com’è profondo il mare…».
Poi certo è singolare che in un Paese di destra abbia tanto successo — sino al 70% di share — un festival come quello di Amadeus, che non è di sinistra(Bella ciao non è Bandiera rossa bensì un canto di libertà), ma ancora una volta ha dato voce a questioni e sensibilità considerate progressiste. Questo però è naturale, persino ovvio: il mondo dello spettacolo è più vicino a Renato Zero che a Francisco Franco, all’amore libero che a Dio patria e famiglia; i giovani magari votano a destra, ma non sono così inclini a farsi dettare i comportamenti sessuali e gli stili di vita dai capi partito. E il bacio maschile, che tanto scandalo aveva destato l’anno scorso, è finito nello spot della Regione Liguria amministrata dal centro destra.
La vera novità di Sanremo 2024 è stata l’exploit di Geolier, che è poi la versione aggiornata dell’antico primato artistico di Napoli. Peccato che non sempre i napoletani ne siano consapevoli, altrimenti non si rifugerebbero in tanti nel consolatorio mito neoborbonico, per cui i mali del Sud sono colpa del Nord, e si stava tanto bene al tempo di festa farina e forca prima che arrivasse Garibaldi a portare i valori del Risorgimento, che sono poi quelli repubblicani, a cominciare dalla libertà. Il lamento sudista è speculare al mugugno nordista: molti padani credono che sarebbero ricchi e felici come gli svizzeri e i bavaresi se non ci fosse il Sud, e forse anche con questo retropensiero fischiano Geolier. Sono quelli che a Napoli non vanno, o se ci vanno sperano di essere riconfermati nel proprio pregiudizio, di trovarla sporca e piagnona, per poter dire: bella, ma non ci vivrei (come se qualcuno fosse pronto davvero a vivere in un posto che non è il suo). Napoli invece non solo è stupenda, non solo è una città tutta da vivere, ma è madrepatria per ogni italiano; come Roma da cui abbiamo preso la lingua e l’idea di grandezza, come Firenze dove è nata l’idea d’Italia, come Milano che ha sempre accolto tutti coloro che «hanno un mestiere».
Lo disse anche, nel titolo di un suo libro, uno scrittore che con il Sud è spesso stato critico, Giorgio Bocca: «Napoli siamo noi». Geolier è solo l’ultimo a ricordarcelo. E quelli che oggi negli stadi chiederanno al Vesuvio di distruggere Napoli sotto sotto invidiano ai napoletani la loro libertà, la loro destrezza, il loro talento nel gustarsi la vita, e ovviamente la loro musica. corriere.it