Pantani, l’impresa sul Galibier 25 anni fa il pirata vinceva il Tour de France

Due milioni e mezzo di italiani la vissero in diretta davanti alla tv, un altro milione si precipitò davanti al piccolo schermo con il passare dei minuti, avvertito da parenti e amici, mezza nazione quella sera venne informata dai telegiornali. Era il pomeriggio di 25 anni esatti fa, quello del 27 luglio 1998, uno dei più gloriosi (fino a prove contrarie, poi purtroppo arrivate) nella storia dello sport italiano. Era giorno in cui con un allungo secco, uno dei suoi, su un Col de Galibier flagellato da pioggia e freddo, Marco Pantani piantò sul posto l’alieno tedesco Jan Ullrich, gonfio di fatica e di farmaci, e scattò tutto solo verso il traguardo delle Deux Alpes e la vittoria di un Tour de France che mancava all’Italia dal 1965, dal trionfo di Felice Gimondi. Un gesto estremo, in un Tour per mille motivi estremo e arrivato per miracolo a Parigi che trascinò Pantani nella leggenda dello sport ma anche, da lì a pochi mesi, nel baratro. Pantani quell’anno al Tour non doveva esserci: aveva vinto un durissimo Giro d’Italia contro Pavel Tonkov meno di due mesi prima e, come da tradizione, si sarebbe dovuto godere il meritato riposo. Ma la sua Mercatone Uno, un po’ per sfruttare l’onda lunga del successo rosa, un po’ per ricordare il mentore del team, Luciano Pezzi, appena scomparso, ebbe vita facile nel convincere il Pirata a volare a Dublino da dove la corsa partiva. Il rivale, sulla carta imbattibile, era il giovane tedesco Jan Ullrich che l’anno precedente aveva distrutto il suo capitano Bjarne Riis: squadra fortissima, la Telekom, lui micidiale a cronometro e capace di volare oltre le leggi della fisica in salita. Pantani quell’anno al Tour non doveva esserci: aveva vinto un durissimo Giro d’Italia contro Pavel Tonkov meno di due mesi prima e, come da tradizione, si sarebbe dovuto godere il meritato riposo. Ma la sua Mercatone Uno, un po’ per sfruttare l’onda lunga del successo rosa, un po’ per ricordare il mentore del team, Luciano Pezzi, appena scomparso, ebbe vita facile nel convincere il Pirata a volare a Dublino da dove la corsa partiva. Il rivale, sulla carta imbattibile, era il giovane tedesco Jan Ullrich che l’anno precedente aveva distrutto il suo capitano Bjarne Riis: squadra fortissima, la Telekom, lui micidiale a cronometro e capace di volare oltre le leggi della fisica in salita. La storia cambiò sui Pirenei, prima con la vittoria di Rodolfo Massi a Luchon (otto giorni dopo il marchigiano verrà fermato ed espulso per possesso di sostanze proibite nella stanza di albergo) e il giorno dopo, era il 22 luglio, con il successo di Pantani sul Plateau de Beille dove il Pirata rosicchiò una manciata di secondi ad un Ullrich che sembrava però poter controllare la situazione: la penultima tappa era una cronometro di oltre 50 chilometri che sulla carta offriva al tedesco un vantaggio enorme. Il 24 luglio, dopo il giorno di riposo, la tensione attorno ai corridori ormai accerchiati esplose: capitanato da Laurent Jalabert (uno sprinter trasformatosi miracolosamente in scalatore) il gruppo improvvisò uno sciopero lungo il percorso, sedendosi sull’asfalto. Al grido di «non siamo animali», i corridori denunciarono quella parte di cronisti (che restava minoritaria rispetto alla maggioranza inerte e inane) che cominciava a porsi e a porre delle domande intuendo che la corsa era corrotta. Jean Marie Leblanc, potente e cinico boss della corsa, riuscì però a far ripartire la carovana: lo spettacolo deve sempre andare avanti. La Grenoble-Deux Alpes divenne quindi la tappa dell’impresa che resta nella storia dello sport italiano, sia pure incrostata da vicende parallele di cui solo molto tempo dopo si conosceranno i dettagli: con un meteo terribile, Pantani inventò l’unico gesto per provare a mettere in crisi Ullrich, una fuga impossibile sul mitico Galibier a 50 chilometri dall’arrivo. E Ullrich mollò quasi subito, arrivando al traguardo destabilizzato a nove minuti e accumulandone quasi sei di ritardo in classifica generale. E il giorno dopo ad Albertville, in un goffo tentativo di rimonta, precedette Pantani sul traguardo solo di qualche centimetro, di fatto firmando la sua resa: la cronometro di Le Creusot, che pure il tedesco vinse, non avrebbe mai potuto ribaltare il risultato. La marcia verso Parigi però fu tutto meno che trionfale. Controlli, fermi di polizia, un nuovo sciopero il 29 luglio verso Aix-Les Bains che portò alla neutralizzazione della tappa, sei squadre che si ritirarono in blocco e in alcuni casi con arrogante imbarazzo (Riso Scotti-MG, Banesto, Once, e le spagnole Kelme e Vitalicio Seguros, l’olandese Tvm) con il dimezzamento del 196 corridori partiti dall’Irlanda. Jalabert se ne andò sdegnato, Bjarne Riis (il capopolo che anni dopo confessò il suo doping «totale e assoluto») minacciò un ritiro globale se la Gendarmerie non avesse desistito, un Pantani un po’ apatico si associò ai colleghi. Una festa malinconica. Pantani venne incoronato a Parigi il 2 agosto dal suo predecessore, uno spaesato Felice Gimondi. Seguirono parate, una grande festa in Riviera romagnola le cui immagini ora appaiono profondamente malinconiche, compagni e amici con i capelli giallo canarino. Meno di dieci mesi dopo Marco venne espulso dal Giro d’Italia a Madonna di Campiglio, con l’ematocrito alle stelle e cominciò la sua discesa all’inferno. Quindi anni dopo, la verità parziale. La verità biologica (una parte, almeno) su quel Tour de France (ma anche su quello del 1999) arrivò nel luglio del 2013, quando una commissione d’inchiesta del Senato francese ordinò nuovi test sulle provette di urina congelate dei partecipanti. Tra i corridori positivi all’Epo c’erano Marco Pantani (scomparso nel 2004), Manuel Beltran, Jeroen Blijlevens, Mario Cipollini (che si ritirò dopo una settimana), Laurent Desbiens, Jacky Durand, Bo Hamburger, Jens Heppner, Laurent Jalabert, Kevin Livingstone, Abraham Olano, Marcos Serrano, lo stesso Jan Ullrich e il super velocista tedesco Erik Zabel. Per un’altra ventina di atleti pesanti sospetti derivati da parametri sballati ma non la certezza analitica. Dei primi venti classificati di quel Tour, l’italiano Daniele Nardello (9°) fu uno dei pochissimi a non venire sfiorato da sospetti di doping. Il Tour del 1998 passò definitivamente alla storia come quello della vergogna. corriere.it