Springsteen in concerto, il rock dopo la tempesta in 72mila alla chiusura del tour

Con Bruce Springsteen funziona così. Vivi sempre lo show come possa essere l’ultimo. Anagrafe canaglia: trovalo tu un altro che a 73 anni (scrivere 73 ma anche rileggerlo fa sempre impressione) sfoglia scalette come fossero margherite. Un altro che suona, canta, balla, parla goffo ma divertito in italiano, lancia cori come in una curva da stadio. Per restare ai piani alti del rock l’esempio è fresco: Bob Dylan che arriva a Milano, chitarra al collo e sequestra i cellulari per poter cantare sottovoce. Bruce invece vuole la corrida. È fatto così. Alè. Non può piovere per sempre. Così intorno alle 8, con un atipico ritardo sugli orari svizzeri a cui il Boss ha abituato le sue masse, inizia un altro film. Che è la serata giusta lo capisci subito. L’alba è una No Surrender suonata come si faceva una volta. Prove It All Night, Promise Land, Darlington County, intervallata da qualche concessione ai capitoli più recenti e pure con qualche sconto sulla voce che ogni tanto rende onore alla carta di identità. Su Mary’s Place vieni giù un tramontone che sembra condonare tutte le polemiche sul meteo della vigilia. A questo giro erano bastati due indizi a fare una prova. Il meteo prova anche questa volta a mettersi di traverso. Dopo l’alluvione in Emilia Romagna e quella data a Ferrara appesa a chilometri di polemiche fino all’ultimo minuto, Bruce Springsteen (che ha sempre sostenuto di non aver saputo niente del disastro intorno) riatterra sull’Italia e si trova i tropici a Milano. Pioggia, grandine, il pratone della Gerascia rivoltato dal maltempo. Con il tifo contro degli ambientalisti che avrebbero preferito tenere gli alberi e tutto il verde intorno sottochiave. Springsteen e l’E Street Band sopravvivono anche questa volta alla maledizione del meteo. E Monza fu, dopo gli antipasti di Ferrara e Roma, in un giro d’Italia fuori dalle solite rotte. Su quel pratone allenato a volumi da formula uno, ma anche a tanto rock pregresso. Fango, zanzare. Zanzare e ancora fango, tatuato addosso come Glastonbury ha reso di moda. Campo pesante, ma il rock non è schizzinoso. Figuriamoci per l’ultimo atto dell’ennesimo tour di rock sudato. Bruce aspetta che faccia buio per iniziare con The River un filotto che attraversa una Backstreets (che a distanza di decenni resta il pezzo più commuovente di Springsteen), Because the Night, She’s The One, Badlands. Quindi la volatona finale: Born To Run, Bobby Jean, il trenino su Glory Days, Dancing in The Dark, Tenth Avenue Freeze-Out e poi la sorpresina di Twist and Shout. La clessidra dice tre ore, anche a sto giro. È il solito viaggio generazionale. Che poi alla fine sono tutti habitué, pronti a fare il torneo di concerti a curriculum. Venivano ragazzini, poi si sono fatti grandi e ora presentano Bruce ai loro figli, un po’ come fosse quel vecchio zio che invecchia meglio di tutti e di cui sai che ti potrai fidare sempre. Insomma un popolo in cammino, sperando non sia l’ultima tappa del viaggio. C’è ancora spazio per qualcosina in valigia. corriere.it