“Trova 160 milioni di lire in un cassapanca ma non può convertirli in euro”, ecco tutta la storia
Passano gli anni, non le lire, i nomi degli avvocati e delle associazioni che ruotano intorno a storie che hanno dell’incredibile. Forse proprio perché non sono vere. E quindi, rieccoci qua: ricchi eredi che scoprono tesori in casa, nel giardino o nella cassapanca della nonna. L’ultimo episodio, raccontato su diversi siti locali e nazionali nelle ultime ore, è ambientato a Sondrio. Il signor Lorenzo P., 53 anni, lavoratore precario in un call center, originario di Roma ma residente al centro della Valtellina, trova 161 milioni di vecchie lire. Ma essendo passati oltre vent’anni dall’entrata in circolazione dell’euro, la Banca d’Italia non permette più la conversione. «Carta straccia». Cosa fa dunque Lorenzo? Si rivolge all’associazione di consumatori GiustItalia, che annuncia a mezzo stampa un’azione legale per consentire il cambio del denaro in valuta corrente. Nulla di strano, a prima vista. Solo che una storia simile era accaduta anche nell’aprile scorso ai fratelli Maria e Stefano D. Quella volta a Parma. Avevano trovato 47 milioni di lire nell’armadio del nonno. Poi avevano cercato di convertirle in euro ma avevano subito la stessa sorte di Lorenzo.
Qualche giorno prima, invece, un uomo di Brindisi, dopo la morte del padre pittore, rovistando in un box, aveva trovato un quadro del 1500 dietro al quale erano nascosti 23 milioni, sempre delle vecchie lire. Inutile ripetere la trafila alla quale erano andati incontro i protagonisti di queste strane storie. Ma un’altra cosa in comune Lorenzo, Maria, Stefano e il loro «collega» brindisino ce l’hanno: si sono rivolti tutti sempre e solo alla stessa associazione: GiustItalia, appunto. Si aggiunga un elemento. I due avvocati cui sono attribuiti, negli articoli in Rete, i virgolettati che difendono Lorenzo P. sono Francesco Di Giovanni e Luigi De Rossi. Il primo, come si vedrà, presidente di GiustItalia; il secondo è un «fantasma». Almeno tra le «pagine» dell’albo dell’ordine degli avvocati, tra quelli cioè ufficialmente iscritti. Di lui non ci sono tracce: «zero risultati». Strano. Anche perché De Rossi non è nuovo alle cronache dei giornali. Di lui s’era già scritto a proposito di notizie curiose (e non verificate): come la «nonnina centenaria» che appena guarita dal Covid aveva trovato per caso un buono fruttifero da 500 mila euro; o la class action degli utenti di WhatsApp per chiedere un risarcimento dopo un blocco temporaneo della chat.
Di Lorenzo da Sondrio, di Maria e Stefano da Parma, e degli altri protagonisti di queste storie, tra l’altro, non viene mai diffusa una foto (in attesa, forse, che un giorno ci pensi l’intelligenza artificiale a produrre immagini ad hoc). Sul sito dell’associazione GiustItalia non c’è nemmeno un numero di telefono fisso. Solo due cellulari: uno «per le emergenze» via WhatsApp, l’altro «attivo il mercoledì, il giovedì e il venerdì dalle 15 alle» 18. La sede legale è in via Romeo Romei a Roma. Altra particolarità: nello stabile della Capitale, nessuno degli altri inquilini ha mai sentito nominare l’associazione. Silenti.
Finalmente, a chiarire ogni dubbio, ci pensa lo stesso numero uno di GiustItalia (così come indicato sul sito dell’associazione). E così come si identifica rispondendo al telefono (al numero che abbiamo recuperato dall’Albo degli Avvocati): «Avvocato Francesco Di Giovanni, presidente di Giustitalia?», «Sì, sono io». Proprio quello che negli articoli pubblicati negli ultimi giorni difende Lorenzo P. Va detto, dal sito dell’Albo Di Giovanni ha effettivamente indicata via Romeo Romei a Roma. Il nostro interlocutore non vuole rispondere sulle vicende del passato, ma almeno chiarisce i contorni della «notizia» arrivata da Sondrio: «Lo ammetto, quell’articolo è una frottola». Dice di essere lui il presidente di GiustItalia, di conoscere storie simili, ma che «quanto scritto non corrisponde alla verità».
Eppure negli articoli che girano in Rete le spiegazioni del fantomatico «caso Sondrio» sono attribuite, come detto, proprio a lui. Risponde Di Giovanni: «Non è stata una scelta mia, ma di un’altra persona, un collega del foro di Tivoli, al quale ho detto almeno venti volte di non farlo. Lu ha insistito. Glielo dirò per la ventunesima. Io ero contrario e non ho scritto nulla. Sto cercando di rimediare alla figuraccia». Poi l’avvocato riattacca. Rimane però un dubbio: per quale ragione, e a che pro, diffondere una notizia falsa? corriere.it