Vallanzasca esce dal carcere dopo 52 anni, l’ex bandito trasferito in una Rsa 

Renatino ha 74 anni, 52 li ha passati in cella. Ha una malattia degenerativa e, come denunciato dalla sua ex moglie, sta morendo solo nel carcere di Bollate. I suoi fedelissimi l’hanno lasciato da tempo: Pinella Colia morto in un banale incidente in moto e Rossano Cochis annegato mentre faceva il bagno in Puglia. Francis Turatello è da quasi mezzo secolo (43 anni) sepolto al campo 82 del cimitero di Monza. Pochi fiori, la statua di san Francesco e una vecchia foto in bianco e nero dove sorride. Angiolino Epaminonda se n’è andato a 71 anni, il 19 aprile 2016. È stato il solo, in qualche modo, a salvarsi risparmiandosi il carcere e conservando vita e libertà. Quella del «Tebano», re delle bische e della droga, è terminata nel 1984 con l’arresto e poi la decisione di «buttarsi pentito», il primo dei collaboratori di giustizia di mafia al Nord. Il destino gli aveva riservato una identità e un impiego come negoziante del centro Italia. Eccolo quel che resta dei «figli della guerra». I tre re che per quasi due decenni si sfidarono a pistolettate, agguati e rapine. Tre nomi, Turatello-Vallanzasca-Epaminonda, che hanno segnato la storia nera di Milano. Storia che oggi è un romanzo, con le tre vite dei gangster che si intrecciano in un’unica sceneggiatura. A narrarla, il giornalista e autore di podcast Stefano Nazzi che per Strade blu di Mondadori ha pubblicato «Canti di guerra. Conflitti, vendette, amori nella Milano degli anni Settanta». Dietro la leggenda dei ragazzi venuti dalla periferia e che dal niente hanno scalato le gerarchie della malavita, ci sono le radici di un fenomeno che oggi si chiama «criminalità economica mafiosa». Quella che soffoca Milano senza sparare, senza apparire, senza neppure far paura. Nella quasi totale indifferenza. Perché prima che i calabresi della ‘ndrangheta prendessero il monopolio dei sequestri di persona, e mentre i siciliani (i primi a farlo su grande scala al Nord) iniziavano a vedere l’ascesa dei Corleonesi di Riina, erano state le bande di Turatello e Vallanzasca a gestire «alla milanese» il mercato dei rapimenti. Due opzioni: sequestro duro, chiusi in una buca o in un pollaio, o sequestro lampo con permanenza in appartamento champagne, coca e compagnia femminile. Il tutto, ovviamente, con tanto di listino prezzi. Turatello è stato il primo a capire che i milanesi, quelli della locomotiva d’Italia, nascondevano soldi e segreti. Le sue bische accoglievano ogni notte professionisti, giornalisti, medici, politici, avvocati e poliziotti. Casinò clandestini ma noti a tutti. Come conosciuti erano i tesori che le ricche famiglie milanesi conservavano in Svizzera al sicuro dal fisco italiano. E poi la coca, droga da ricchi, spacciata nelle bische e nei circoli più segreti, mentre in strada morivano i ragazzi consumati dall’eroina. La «mala», insomma, aveva capito che più forte delle pallottole erano il vizio. Eppure erano anni in cui si sparava e si moriva per niente. Confrontare il numero degli omicidi di quegli anni con l’ultimo decennio è un esercizio quasi senza senso: quasi l’80 per cento in meno. Perché ogni tempo ha le sue emergenze, e in quegli anni Milano bruciava tra gangster e terrorismo, e anche le sensibilità erano diverse. La letteratura del dopo ha avuto come sempre l’inevitabile tocco dell’agiografia. Anche perché le storie dei tre gangster che hanno comandato Milano hanno avuto davvero qualcosa di incredibile per il livello delle imprese, per l’astuzia dei trucchi, per la portata delle leadership che hanno saputo costruire. Nazzi intreccia le loro vite e i loro drammi. Ma ricorda anche il sacrificio di quanti, senza saperlo, caddero in questa guerra di cui oggi restano soltanto le lapidi. corriere.it